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Santi del 27 Luglio

Il mio Santo > I Santi di Luglio

*Beato Andrea Jimenez Galera - Sacerdote Salesiano, Martire (27 Luglio)

Schede dei gruppi a cui appartiene:
“Beati Martiri Spagnoli Salesiani di Madrid e Siviglia”
“Beati 498 Martiri Spagnoli Beatificati nel 2007“
“Martiri della Guerra di Spagna”  
Rambla de Orla, Spagna, 25 gennaio 1904 - Madrid, Spagna, 27 luglio 1936
Andrés Jiménez Galera nacque a Rambla de Orla (Almería) il 25 gennaio 1904. Entrato in Seminario e
ricevuta l'ordinazione sacerdotale nel 1926, esercitò il sacro ministero ad Almería, finché nel 1935 entrò nella Congregazione Salesiana.
Aveva appena cominciato il Noviziato a Mohernando (Guadalajara, allorché, scoppiata la rivoluzione, fu detenuto con tutta la comunità.
Senza perdersi in lamenti, si dedicò con il Direttore a confortare gli animi, esortando ad avere fiducia nella Provvidenza e ad accettare quanto il Signore volesse disporre.
Giunse persino ad offrire la vita per la salvezza dei confratelli.
Il 27 luglio i carcerati vennero trasferiti da Guadalajara a Mohernando.
Durante il percorso alcuni miliziani, scorgendo il crocifisso che il martire portava con sé, gli ingiunsero di buttarlo via; ma, avendo ricevuto un deciso rifiuto, lo uccisero con una scarica di fucileria, mentre don Andrés, con le braccia aperte e il crocifisso nella mano destra, pregava ad alta voce.
Beatificato il 28 ottobre 2007.

(Fonte: www.sdb.org)
Giaculatoria - Beato Andrea Jimenez Galera, pregate per noi.

*Sant'Antusa dell’Onoriade - Vergine, Fondatrice  (27 Luglio)

Onoriade (Anatolia), inizio VIII sec. – Mantineion, 777 ca
Martirologio Romano:
Nella località di Mantineion presso Eskihisar in Onoriade, nell’odierna Turchia, Santa Antusa, vergine, che, monaca, fu battuta con le verghe e condannata all’esilio sotto l’imperatore Costantino Copronimo per aver difeso il culto delle sacre immagini e, fatto infine ritorno in patria, morì in pace.
Con il nome di Antusa (Anthusa), vi sono cinque Sante, tutte orientali dei primi secoli del cristianesimo; tre sono anche martiri.
La più celebre è Sant’Antusa di Costantinopoli, principessa imperiale figlia di Costantino V Copronimo; ma collegata a lei, vi è la santa Annusa, quasi contemporanea, di cui si parla in questa scheda.
Nacque all’inizio dell’VIII secolo, probabilmente nell’Onoriade (provincia dell’Anatolia sulle coste del Mar Nero); suoi genitori furono Strategio e Febronia, e per molti anni visse in solitudine secondo gli insegnamenti del monaco eremita Sisinnio.
In seguito fondò nella sua zona due monasteri, uno per gli uomini a Mantineion presso Claudiopoli, con una chiesa dedicata agli Apostoli e un altro per le donne, eretto su un isolotto del vicino lago di Efteni-Göl, con una chiesa dedicata alla Madonna; il monastero maschile era aggregato a quello femminile e tra i discepoli ci fu pure san Romano.
E venne il tempo dell’imperatore Costantino V Copronimo (741-775), che con rigore persecutorio, volle imporre la decisione del Concilio di Hieria del 754, che condannava le immagini sacre; i monaci furono colpiti più degli altri e ciò procurò a Costantino V, da parte degli avversari, dei soprannomi insultanti (Copronimo, da kópros, sterco).
Anche la vergine fondatrice Antusa, fu accusata di venerare le immagini rifiutando l’apostasia degli iconoclasti, quindi fu duramente percossa e mandata in esilio.
Ma quando l’imperatrice Irene, moglie di Costantino V diede alla luce due gemelli un maschio e una femmina, dopo un difficile e pericoloso parto, Antusa che aveva predetto il felice esito della travagliata gravidanza, ricevette grandi onori dall’imperatrice, che volle mettere il suo nome alla piccola gemella.
Liberata dalla persecuzione e diventata celebre in tutto l’Impero, tornò al suo monastero di Mantineion, dove Antusa, dopo aver compiuto molti miracoli, rese l’anima a Dio nella seconda metà dell’VIII secolo, verso il 777.
È celebrata sia in Oriente che in Occidente il 27 luglio, ma nei Menei greci è ricordata anche il 17 e 28 luglio.

(Autore: Antonio Borrelli – Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria - Sant'Antusa dell’Onoriade, pregate per noi.

*Sant'Arnaldo di Lione - Vescovo (27 Luglio)

Emblema: Bastone pastorale
Nel Catalogus Generalis Sanctorum il Ferrari menziona al 27 luglio un Arnaldo, vescovo di Lione, che sarebbe morto martire nel 1128.
La notizia è però inverosimile, perché noi conosciamo i nomi dei vescovi che occupavano la sede in quel periodo, e tra essi non figura Arnaldo.
La formula usata dall'agiografo "ex tabulis episcop. Lugdun." è troppo vaga perché se ne possa fare un controllo.

(Autore: Gérard Mathon – Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria - Sant'Arnaldo di Lione, pregate per noi.

*San Bertoldo di Garsten - Abate Benedettino  (27 Luglio)

Austria, 1060 ca. – Garsten (Austria), 27 luglio 1142
Nacque in Austria in una nobile famiglia verso la fine del secolo XI (1060 ca.). Giovanissimo entrò nel monastero benedettino di San Biagio di Golwin nella Foresta Nera, dove in seguito fu eletto bibliotecario e priore.
Nel 1111 divenne abate del monastero di Garsten.
Con accorta organizzazione aumentò le proprietà del monastero, grazie a doni e lasciti sia di privati, sia dell'imperatore Corrado III (1093-1152.
Dal ricavato dei benefici costruì una foresteria per gli ospiti e un ospizio per i poveri.
Bertoldo morì il 27 luglio 1142; il culto verso di lui cominciò subito e venne sanzionato dal vescovo di Passau nel 1236.
Nonostante il culto proseguisse soprattutto in Austria, con approvazioni diocesane, non c'era ancora nessuna dichiarazione ufficiale della Chiesa; nel 1951 i Benedettini austriaci si attivarono per riprendere i necessari processi e così l'8 gennaio 1970, con decreto di Papa Paolo VI, si ebbe la conferma del culto di San Bertoldo, abate di Garsten. (Avvenire)

Etimologia: Bertoldo = famoso, illustre, splendente, dall'antico germanico
Martirologio Romano: Nel cenobio di Garsten in Stiria, nell’odierna Austria, Beato Bertoldo, abate, al quale avevano facile accesso i penitenti in cerca di consiglio o quanti fossero in cerca di aiuto.
San Bertoldo fu il primo abate ad ispirarsi alla riforma monastica cluniacense in Austria, nel governo del suo monastero.
Grazie a lui l’abbazia di Garsten in Stiria, fu una delle poche comunità benedettine dell’Impero, che conobbe i benefici della riforma di Cluny, voluta da San Brunone nel 910.
Berthold nacque in Austria in una nobile famiglia verso la fine del secolo XI (1060 ca.), giovanissimo entrò nel monastero benedettino di San Biagio di Golwin nella Foresta Nera (Catena montuosa della
Germania), dove in seguito fu eletto bibliotecario e priore.
Verso il 1105 fu chiamato dall’abate Hartmann a Göttweig nella diocesi di Passau, per sostituire il priore Wirnt, che era stato inviato con alcuni monaci nel monastero di Garsten in Stiria (regione dell’Austria fra la Carinzia e l’Ungheria) che era stato fondato da Ottocaro, marchese della regione.
Nel 1111 Wirnt fu mandato a dirigere un monastero in Baviera e Berthold gli successe come abate nella guida di Garsten.
Con accorta organizzazione aumentò le proprietà del monastero, grazie a doni e lasciti sia di privati, sia dell’imperatore Corrado III (1093-1152), dal ricavato dei benefici costruì una foresteria per gli ospiti e un ospizio per i poveri.
Con la sua guida e con la promozione dello splendore del culto, Garsten divenne un centro di attrazione; austero nella vita, dette esempio di assiduità nella preghiera e nel ministero sacro; cosa insolita per quei tempi, insegnò ai monaci ed ai laici la pratica della confessione frequente, lui stesso passava varie ore nel confessionale, anche Corrado III fu suo penitente.
Ebbe il dono della profezia e grande potere taumaturgico e a volte quello di moltiplicare le risorse dell’abbazia.
Bertoldo morì il 27 luglio 1142; il culto verso di lui cominciò subito e venne sanzionato dal vescovo di Passau nel 1236. Nonostante che il culto proseguisse soprattutto in Austria, con approvazioni diocesane, non c’era ancora nessuna dichiarazione ufficiale della Chiesa; nel 1951 i Benedettini austriaci si attivarono per riprendere i necessari processi e così l’8 gennaio 1970, con decreto di Papa Paolo VI, si ebbe la conferma del culto di San Bertoldo abate di Garsten.

(Autore: Antonio Borrelli – Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria - San Bertoldo di Garsten, pregate per noi.

*San Celestino I - 43° Papa (27 Luglio)

sec. V
(Papa dal 10/09/422 al 27/07/432)
Fu in relazione con Sant'Agostino fin dal 390. Fu eletto Papa nel 422. Il suo pontificato fu molto attivo. Oltre restaurare in numerose basilica, tra cui Santa Maria in Trastevere, e costruire la basilica di Santa Sabina, difese il diritto della Sede Apostolica di ricevere appelli da parte di tutti fedeli. Prese ferma posizione in difesa della purezza della fede contro gli errori di Pelagio e Nestorio.
Contro quest'ultimo agì con grande energia e determinazione. Nel Concilio di Roma del 430 lo condannò imponendogli di sconfessare i suoi errori.
Mandò, un anno dopo, alcuni suoi legati al Concilio di Efeso, indetto dall'imperatore per risolvere definitivamente la questione, con l'ordine di salvaguardare i diritti della Sede Apostolica e di attenersi alle decisioni di San Cirillo. Nell’817 il suo corpo fu collocato nella basilica di Santa Prassede e parte di esso, pare, a Mantova.

Etimologia: Celestino = venuto dal cielo, dal latino
Martirologio Romano: A Roma nel cimitero di Priscilla sulla via Salaria, San Celestino I, Papa, che, solerte nel difendere la Chiesa e nel dilatarne i confini, per primo istituì l’episcopato in Inghilterra e in Irlanda e diede il suo sostegno al Concilio di Efeso nel salutare la beata Maria come Madre di Dio in opposizione a Nestorio.
I dieci anni di pontificato di S. Celestino I (10 settembre 422 - 27 luglio 432) segnano un periodo, pur breve, di grandi realizzazioni. Il successore di Bonifacio I era un di grande energia e al tempo stesso di commovente liberalità. Mentre badava alla ricostruzione di Roma, ancora dolorante per il terribile sacco subito nel 410 dal barbaro Alarico, non perdeva di vista gli interessi spirituali dell'intera cristianità.
Difendeva il diritto del papa di ricevere appelli da parte di ogni fedele, laico o chierico, ed era sollecito nel rispondere.
Al Papa veniva chiesto soprattutto di fissare norme alle quali ogni fedele dovesse conformare la propria condotta.
Da queste risposte, conosciute col nome di Decretali, prese forma il primo embrione del diritto canonico. Scrisse lettere ai vescovi dell'Illiria, della Gallia Narbonese e Viennese, delle Puglie e della
Calabria, per correggere abusi, dissipare dubbi dottrinali, combattere eresie o semplicemente per proibire ai vescovi di indossare cintura e mantello propri dei monaci.
Tenne cordiale corrispondenza con l'amico vescovo di Ippona, Sant' Agostino, del quale, a un anno dalla morte (28 agosto 430), difese calorosamente la dottrina, nella disputa antipelagiana, con parole che ne consacrarono definitivamente l'autorità e la santità.
In questa lettera, indirizzata ai vescovi della Gallia, il Papa affermava che Agostino era sempre stato in comunione con la Chiesa romana e lo collocava tra i più autorevoli maestri di dottrina.
In essa si avvertiva non solo l'affettuosa solidarietà verso un amico, ma anche la chiara visione che il santo pontefice aveva dei problemi dell'intera comunità ecclesiale, in cui egli svolgeva con evangelica evidenza la parte del buon pastore, sollecito delle sorti di ognuno, foss'anche l'eretico Nestorio, patriarca di Costantinopoli, che il Concilio di Efeso, indetto dal papa nel 431, aveva appena destituito e condannato.
Il 15 marzo 432 Papa Celestino indirizzava ai padri conciliari, all'imperatore, al nuovo patriarca, al clero e al popolo una lettera in cui esprimeva la sua esultanza per il trionfo della verità e invitava tutti alla magnanimità verso lo sconfitto.
É questo l'ultimo documento del fattivo pontefice. Morì infatti il 27 luglio dello stesso anno e venne sepolto nel cimitero di Priscilla, in una cappella affrescata con gli episodi del recente concilio di Efeso, che aveva proclamato solennemente la divina maternità di Maria.
Nell'817 le reliquie del santo pontefice furono collocate nella basilica di Santa Prassede e parte di esse sembra siano state trasportate nella cattedrale di Mantova.

(Autore: Piero Bargellini - Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria - San Celestino I, pregate per noi.

*Santi Clemente di Ochrida, Gorazdo, Nahum, Saba e Angelario - Apostoli della Bulgaria (27 Luglio)
IX-X secolo
Nulla sappiamo della sua nascita e della giovinezza. Compare in scena quando nel IX secolo l'imperatore Michele III di Costantinopoli manda al principe Rastislav di Moravia, come evangelizzatori da lui richiesti, i fratelli Cirillo e Metodio, originari di Salonicco.
Con loro c'é anche Clemente, che si occupa di adattare la liturgia d'Oriente alle popolazioni cristianizzate.
Costretto a fuggire dalla Pannonia verso la Bulgaria per impulso di un vescovo nemico del "rito slavo", qui Clemente lavora a semplificare l'alfabeto cirillico per facilitarne lo studio; e, verso l'865, converte al cristianesimo il re Boris, che lascerà poi il trono entrando in un monastero.
Il suo secondo successore, Simeone, incoraggia l'opera missionaria, e nell'893-894, nomina Clemente "primo vescovo di lingua bulgara", mettendolo a capo della diocesi di Belika.
Ma il suo pensiero va spesso a Ochrida, dove fa nascere un monastero che poi visita spesso.
Invecchiando, è lì che vorrebbe ritirarsi.
Ma non può: la voce generale lo vuole sempre vescovo a Belika. A Ochrida è poi sepolto, in una tomba che diviene luogo di venerazione popolare.
San Clemente viene ricordato il 27 luglio e in alcuni luoghi anche il 25 novembre. (Avvenire)

Martirologio Romano: A Ohrid nell’Illirico, nell’odierna Macedonia, San Clemente, vescovo di Drama, che, inisgne per cultura e conoscenza delle sacre lettere, portò al popolo dei Bulgari la luce della fede.
Insieme a lui vengono commemorati i santi vescovi Gorazdo, Nahum, Saba e Angelario, che proseguirono in Bulgaria l’opera dei santi Cirillo e Metodio.
La Bulgaria, antica nazione slava dell’Europa orientale, venera “Sette Santi Apostoli” quali principali fautori dell’evangelizzazione del suo popolo.
I loro nomi sono: Cirillo, Metodio, Clemente, Nahum, Saba, Gorazd ed Angelario.
I primi due, fratelli nel sangue oltre che nella fede, festeggiati al 14 febbraio, risulteranno celeberrimi al grande pubblico soprattutto in seguito alla loro proclamazione a compatroni d’Europa da parte di Papa Giovanni Paolo II, che volle così mettere in risalto l’importanza del mondo slavo di cui furono apostoli, da lui considerato uno dei due indispensabili polponi spirituali del continente europeo; gli altri cinque santi, discepoli dei due precedenti, sono invece commemorati dal Martyrologium Romanum in data odierna, che li cita quali vescovi continuatori in terra bulgara dell’opera di Cirillo e Metodio.
Occorre però ripercorrere brevemente la storia dell’immane opera intrapresa dai due fratelli, quale preambolo alle purtroppo assai scarse notizie tramandate circa ciascuno dei loro cinque discepoli.
Loro grande merito fu l’essersi adattati ai popoli da evangelizzare con metodi missionari che, pur pienamente approvati del papa, suscitarono tra i cristiani greci e latini non poche opposizioni. L’aver creato un nuovo alfabeto, che in seguito prese il nome di cirillico appunto da San Cirillo, offrendo al mondo slavo unità linguistica e culturale, con la traduzione della Bibbia, del Messale e del rituale liturgico, è un merito che nessuno nega loro.
Ciò poté avvenire grazie al prezioso supporto loro offerto dal principe moravo San Rostislavo, recentemente canonizzato quale martire dalla Chiesa Ortodossa Ceca. Accusati di scisma e di eresia,
Cirillo e Metodio dovettero recarsi a Roma, dove però vennero accolti con molta soddisfazione dal pontefice Adriano II, che chiese loro di officiare i santi misteri in lingua slava dinanzi a lui stesso.
Cirillo, monaco, morì a Roma il 14 febbraio 869, mentre Metodio divenne arcivescovo della Pannonia con sede nella città oggi serba di Sirmio, ritornando così ad occuparsi dei popoli slavi.
Quasi sino alla sua morte, avvenuta il 6 aprile 885, dovette lottare per far accettare l’utilizzo liturgico dello slavo, che venne usato nel suo rito funebre unitamente al greco e al latino.
Tra i loro seguaci e compagni di apostolato, il più celebre è sicuramente Clemente di Ochrida, città oggi in territorio macedone che a quel tempo apparteneva però alla Bulgaria.
Clemente stesso si trovò ad affrontare i forti dissidi con gli evangelizzatori latini nel mondo slavo e costretto a fuggire dalla Pannonia verso la Bulgaria per impulso di un vescovo nemico del “rito slavo”. Aiutato da un uomo cui aveva miracolosamente resuscitato il figlio, toccò Belgrado, poi attraversò il Danubio. Ma per lui la Bulgaria non fu solo un rifugio, ma si rivelò un vero p proprio nuovo campo di azione.
Qui lavorò per semplificare l’alfabeto cirillico in modo da facilitarne lo studio e, verso l’865, convertì al cristianesimo il re Boris, poi venerato come San Boris Michele I, che lasciò poi il trono per farsi monaco. Il suo secondo successore, lo zar Simeone I, incoraggiò l’opera missionaria, e verso l’893-894, nominò Clemente “primo vescovo di lingua bulgara”, ponendolo a capo della diocesi di Belika.
Il pensiero del santo volgeva però spesso ad Ochrida, ove face sorgere un monastero che sovente ebbe modo di visitare e che scelse quale luogo di ritiro per la sua vecchiaia. Il popolo però si oppose alla sua scelta, non volendosi privare del suo santo pastore che aveva arricchito la diocesi di un giovane clero locale, istruito e formato personalmente. A Ochrida non gli restò che essere infine sepolto, alla sua morte avvenuta nel 916, in una tomba che divenne subito luogo di devozione popolare.
Con Clemente anche altri compagni si erano trovati costretti a scappare dalla Moravia. Il principale di essi è Nahum, il cui nome è anch’esso legato alla città di Ochrida, e della cui vita abbiamo notizie principalmente dalla biografia di Clemente. Con quest’ultimo trovò ospitalità presso il re Boris, ma solo Nahum si fermò a lungo a Preslav, allora capitale bulgara, ove risiedette per sette anni nel monastaro di San Pantaleone fondato per volere del sovrano, dedicandosi alla formazione dei suoi discepoli.
Fu poi anch’egli destinato all’opera di evangelizzazione della Macedonia bulgara e, sulle rive del “lago bianco”, intraprese la fondazione del monastero di Ochrida dedicandolo a San Michele Arcangelo. Nahum lavorò così per altri sette anni nella Bulgaria occidentale, poi ormai stremato si ritirò nel monastero cui aveva dato origine e dopo dieci anni, il 23 dicembre 910, spirò. Come è facile immaginare trovò degna sepoltura nel monastero a lui tanto caro, con esequie presiedute dal vescovo Clemente.
Abbiamo poi San’Angelario, che re Boris fece ospitare da un nobile locale. Dedicatosi anch’egli al diffondere in lingua slava la liturgia, la Bibbia e scritti ascetici, morì infine in data imprecisata.
Le sue reliquie di Sant’Angelario riposano presso Berat in Albania, insieme con quelle di San Goradz, altro compagno del quale nessuna notizia particolare ci è stata tramandata.
Infine troviamo San Saba, da non confondere con l’omonimo primo arcivescovo serbo, che morì poco dopo il suo arrivo in terra bulgara. La venerazione per questi santi è comune alle Chiese d’Oriente e d’Occidente. Il martirologio cattolico commemora infatti insieme al 27 luglio i Santi Apostoli della Bulgaria, mentre il calendario della Chiesa Bulgara dedica loro anche delle feste singole in date differenti.

(Autore: Fabio Arduino - Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria - Ss. Clemente di Ochrida, Gorazdo, Nahum, Saba e Angelario, pregate per noi.

*San Desiderato di Besancon - Vescovo (27 Luglio)
Martirologio Romano: A Lons-le-Saunier sul massiccio del Giura in Francia, San Desiderato, che si ritiene sia stato vescovo di Besançon.
Presentato dalla tradizione come un vescovo di Besançon verso l'anno 400, figura secondo sulla lista episcopale conservata nella Biblioteca Vaticana e undecimo su un catalogo tratto dal messale della cattedrale di Santo Stefano.
Un'altra lista lo menziona ancora all'undecimo posto.
Una di esse ci fa sapere che terminò la sua santa vita a Lons, e che quivi riposa.

Non è possibile, in mancanza di altre fonti, stabilire se si tratti di un Santo locale trasformato in vescovo di Besançon per supplire alle lacune del catalogo, o se invece si tratti di un vero vescovo di Besançon morto e sepolto a Lons.
È festeggiato il 27 luglio nella diocesi di Saint-Claude e in quella di Besançon, dove è considerato vescovo e confessore.
(Autore: Gilbert Bataille – Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria - San Desiderato di Besancon, pregate per noi.

*Sant'Ecclesio Celio di Ravenna - Vescovo (27 Luglio)
Martirologio Romano: A Ravenna, Sant’ Ecclesio, vescovo, che fu compagno di Papa San Giovanni I nel resistere alle crudeltà del re Teodorico e, dopo averle lui solo superate, portò la sua Chiesa a nuovo splendore.
É il ventiquattresimo vescovo di Ravenna, secondo il catalogo episcopale di questa Chiesa tramandatoci da Agnello nel secolo IX, ma di età antica. Succedette ad Aureliano, morto il 26 maggio 521, e nel 523 ricevette la donazione da una certa Ildevara; possiamo quindi supporlo eletto nello stesso anno 521 o poco dopo, e siccome il suo pontificato, secondo la testimonianza di Agnello, durò dieci anni, cinque mesi e sette giorni, si può ritenerlo morto nel 532.
Sono gli anni, assai gravi per le Chiese d’Italia, nei quali il vecchio re Teodorico, in seguito ad una riappacificazione tra Roma e Costantinopoli dopo lo scisma di Acacio, diviene sospettoso e crudele contro i romani, fa uccidere i senatori Albino e Boezio (523-24), costringe Giovanni I a recarsi a Costantinopoli (525-26) per patrocinare la causa degli ariani, contro i quali l’imperatore Giustino aveva emanato severi provvedimenti; poi al ritorno lo fa chiudere in carcere a Ravenna, dove il santo pontefice muore il 18 maggio 526.
Ma pochi mesi dopo muore anche Teodorico e gli succede la reggenza della conciliativa Amalasunta. Il vescovo Ecclesio Celio, che aveva accompagnato il papa a Costantinopoli, al suo ritorno, o almeno dopo la morte del re goto, potè godere di un periodo di relativa tranquillità e con l’aiuto finanziario di Giuliano Argentario (probabilmente una longa manus della corte bizantina in Ravenna) innalzò la grande basilica di Santa Maria Maggiore, continuò la costruzione del Tricolì ed iniziò quella di san Vitale.
Non meno operosa fu la sua attività volta a ristabilire la disciplina ecclesiastica, gravemente pregiudicata dalle vicissitudini politiche di cui era stata teatro la città. Alcune misure particolarmente energiche, che egli prese a questo scopo, incontrarono serie opposizioni da parte del clero ravennate e classense, ma l’intervento di Felice IV (526-30), il cui Constitutum è riportato da Agnello, pure accettando le rivendicazioni economiche presentate dai chierici dissidenti, nel campo disciplinare ed amministrativo non fece che approvare la linea di condotta di Ecclesio Celio.
La tradizione ravennate fissa la memoria del santo al 27 luglio, ma tale nota non appare nel Liber Pontificalis di Agnello.
Il Testi Rasponi spiega questo silenzio con l’ipotesi che Ecclesio Celio venisse sepolto sottoterra nel monasterium Santi Nazarii et Celsi (e cioè nella protesi della basilica di san Vitale) e solo nel secolo IX venisse esumato e collocato nel sarcofago dove rimase fino al 1731 e che da questa esumazione del secolo IX, ma posteriore ad Agnello, avesse origine il culto e la memoria eortologica di Ecclesio Celio. Senonché lo studio di M. Mazzotti sul sarcofago di san Ecclesio nella Basilica di san Vitale ha dimostrato che il sarcofago in cui rimasero le reliquie del Santo sino al secolo XVIII è del secolo VI e che quindi esse vi furono collocate fin dal principio.
Riteniamo dunque più probabile che la mancanza della data obituale in Agnello sia dovuta a difetto di trascrizione (il codice estense del Liber Pontificalis non è che del secolo XV e quello Vat. lat. 5834 del secolo XVIII); conferma l’ipotesi la constatazione che di tutti i vescovi della sede ravennate (e cioè escludendo quelli classificati fino a Liberio) Agnello riporta la data obituale, all’infuori dei due, Ecclesio Celio ed Ursicino, di cui peraltro conosce l’esatta durata di pontificato: e tale silenzio non poteva certamente essere dovuto ad ignoranza, quando sappiamo che di tutti, anche di quelli non venerati, la Chiesa ravennate conservava ricordo liturgico.
Le reliquie di San Ecclesio Celio ebbero una ricognizione nel 1581 e almeno da questa data il sepolcro del santo costituisce la mensa dell’altare del Sancta Sanctorum, ma nel 1731, come si è detto, esse vennero tolte dal sarcofago originario e, con quelle di San Ursicino, collocate nell’arca di San Vittore.
Nel 1903 furono traslate provvisoriamente in arcivescovado, dove però si trovano tuttora.
L’immagine del santo appariva frequentemente nei mosaici ravennati: sono purtroppo rimasti distrutti quelli di Santa Maria Maggiore e del Tricolì, che lo riguardavano, ma sono tuttavia rimasti quelli splendidi dell’abside di San Vitale (dove Ecclesio Celio è raffigurato nell’atto di offrire una chiesa a Cristo) e dell’abside di Sant'Apollinare in Classe, ambedue di poco posteriori alla sua morte e con spiccate caratteristiche di ritratto.

(Autore: Giovanni Lucchesi - Fonte: Enciclopedia dei Santi)

Giaculatoria - Sant'Ecclesio Celio di Ravenna, pregate per noi.

*Beati Evangelista e Pellegrino - Agostiniani (27 Luglio)
XIII sec.
Beati Evangelista e Pellegrino di Verona

La più antica biografia di questi due Beati, quella di F. Pona, posteriore però di ben quattro secoli ai fatti che narra, e alla quale attinsero quanti in seguito parlarono dell’argomento, li fa nascere da nobili famiglie veronesi, mentre la città era tiranneggiata da Ezzelino da Romano, tra il 1226 e il 1259. Portati per indole naturale fin dai primi anni alla pietà e al raccoglimento, appena si conobbero, strinsero profonda amicizia.
Frequentavano con grande profitto lo stesso maestro e con grande devozione la stessa chiesa, quella agostiniana di santa Maria di Montorio, a circa sette chilometri dalla città.
Una notte, in sogno, la Vergine presentò loro la caratteristica cintura degli Agostiniani, invitandoli ad abbracciare quell’Ordine.
Vi furono accolti senza difficoltà.
Con dure penitenze superarono le tremende tentazioni del diavolo e gli allettamenti del mondo. Preferivano pregare all’aperto, in ginocchio, anche d’inverno: al priore, che ne chiedeva il motivo, dovettero confessare che ve li attirava la frequente visione della Vergine, la stessa che avevano visto altra volta, in sogno. Queste grazie d’orazione erano accompagnate dal dono dei miracoli, che attiravano, attorno ai due monaci, folle di bisognosi.
Eppure, benché avessero ricevuto il sacerdozio, volevano per sé i più umili servizi del monastero, quelli di solito lasciati ai frati laici.
Evangelista, avvertito da un angelo che presto sarebbe morto, soffrì solo di dover lasciare l’amico. Colto da morte improvvisa, in coro, durante le divine officiature, non molto tempo dopo comparve a Pellegrino per annunziargli che presto anch’egli avrebbe finito il suo pellegrinaggio terreno.
Non sappiamo quanto ci sia di vero in queste notizie. I Bollandoti le respingono in blocco. Probabilmente il Pona ha colorito con la fantasia e le reminiscenze classiche le vaghe tradizioni che correvano in città sui due beati o quanto aveva scritto nel 1576 R. Bagata.
Anzi, quest’ultimo, fondandosi sulla Tabula Sanctorum Ecclesiae Veronensis del 1518 e su F. Coma (che nel 1477 aveva pubblicato un’opera sulle antichità veronesi) invece che Evangelista, dà per compagno a Pellegrino un Alberto, da non confondersi col beato Albertino di Verona, pure agostiniano. I Bollandisti pertanto identificano Evangelista con Alberto.
L’iscrizione, però, che il Bagata stesso aveva letto sull’altare dei due beati a Sant'Eufemia, parlava di Evangelista e Pellegrino: forse quell’iscrizione era posteriore al Catalogo dei Santi e Beati dell'Ordine Agostiniano annesso alle Costituzioni dello stesso Ordine promulgate dal cardinale Gerolamo Seripando nel 1543, ove si parla dei Beati Evangelista e Pellegrino di Verona. Questo catalogo sarebbe quindi la più antica testimonianza della dicitura Evangelista anziché Alberto.
Comunque, da allora Evangelista e Pellegrino sono i nomi dei due beati agostiniani, i cui corpi riposano a sant'Eufemia di Verona. Vi furono trasportati nel 1262, quando gli Agostiniani di Santa Maria di Montorio secondo il Pona, di Sant'Agostino di Batiorco presso Montorio secondo il Biancolini, vennero a stabilirsi in città nella chiesa di Sant'Eufemia.
Collocati inizialmente sotto l’altare di Sant'Anna, quei resti, dopo la ricognizione del 1637, passarono a quello di Sant'Agostino. Vi restarono fino al 1796, quando la chiesa fu requisita dai francesi e trasformata in ospedale militare. Vi tornarono nel 1807 e furono deposti nella cappella degli Angeli, per passare il 20 marzo 1836 sotto la mensa dell’altare maggiore, ove tuttora riposano.
Il 17 novembre 1837 il Papa Gregorio XVI riconobbe loro il titolo di Beati; in quell'occasione furono proclamati protettori della nobiltà veronese.
Sono ora commemorati dalla Chiesa veronese il 27 luglio, ma prima della riforma del Proprio diocesano erano festeggiati il 20 marzo, con rito doppio e proprie lezioni.

(Autore: Ireneo Daniele – Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria - Beati Evangelista e Pellegrino, pregate per noi.

*Beato Filippo Hernandez Martinez, - Chierico Salesiano, Martire (27 Luglio)
Schede dei gruppi a cui appartiene:
"Beati 233 Martiri Spagnoli di Valencia Beatificati nel 2001"
"Martiri della Guerra di Spagna"
Villena, Spagna, 14 marzo 1913 - Barcellona, Spagna, 27 luglio 1936
Felipe Hernández Martínez nacque a Villena, nei pressi di Alicante, il 14 marzo 1913. Dall’età di nove anni fu allievo nel collegio salesiano della sua città natale. Frequentò poi il seminario di Campello ed emise la professione religiosa il 1° agosto 1930 a Girona. Giovane allegro, fraterno e cordiale con i ragazzi, era da tutti stimato.
Studente di teologia nel 1936, nell’estate fu inviato a Sarriá e lì lo sorprese la guerra civile. Insieme con il coadiutore Jaime Ortiz Alzueta trovò rifugio in una locanda, che fu perquisita dai miliziani il 27 luglio.
Furono catturati i due salesiani e anche un terzo, Zacarias Abadía Buesa, giunto in cerca di rifugio. Dopo essere stati torturati, furono uccisi quella stessa notte. Felipe, che al momento del martirio aveva ventitrè anni, è stato incluso insieme ai suoi compagni nel gruppo di 32 Salesiani dell’Ispettoria Tarragonense (circoscrizione regionale salesiana in cui ricade Valencia), beatificati l’11 marzo 2001 nella celebrazione in cui, in totale, furono elevati agli altari 233 martiri uccisi durante la guerra civile spagnola. La Famiglia Salesiana ricorda lui e gli altri suoi martiri della stessa persecuzione il 22 settembre.

Martirologio Romano: A Barcellona sempre in Spagna, beati Filippo Hernández Martínez, Zaccaria Abadía Buesa e Giacomo Ortíz Alzueta, religiosi della Società Salesiana e martiri, che patirono il martirio sempre nella stessa persecuzione.
Felipe Hernández Martínez nacque a Villena, nei pressi di Alicante, il 14 marzo 1913, in un’umile famiglia di contadini. Dotato di un carattere inquieto e talvolta ribelle, entrò a nove anni nella scuola dei Salesiani nella sua città natale.
Mentre frequentava le elementari, sorse in lui la chiamata a consacrarsi a Dio tra i figli di san Giovanni Bosco.
Nell’autunno 1924 entrò quindi nel Seminario di Campello, dove ebbe come rettore don Recaredo de los Rios Fabregat.
Nel 1929 compì il noviziato a Girona: professò i voti religiosi il 1° agosto 1930. Al termine degli studi di Filosofia, iniziò il triennio di tirocinio pratico a Ciudadela, presso Minorca. Uno dei suoi allievi testimoniò che era «allegro ed espansivo, sapeva contagiare i bambini con il suo dinamismo, metteva un interesse speciale perché i bambini imparassero a servire Messa a dovere. Era il chierico ideale, il quale attraeva per la sua religiosità, che viveva realmente, e che trattava tutti con affetto e con un’estrema delicatezza».
Nell’ottobre 1935 si trasferì a Carabanchel Alto, presso Madrid, per iniziare gli studi di Teologia. Arrivata l’estate del 1936, andò per le vacanze nell’istituto salesiano di Sarriá, vicino Barcelllona.
Tuttavia, a causa dell’inizio della guerra civile spagnola e della conseguente persecuzione religiosa, l’istituto fu chiuso e la comunità disciolta.
Quindi Felipe, insieme al coadiutore (ossia religioso non sacerdote addetto all’istruzione tecnica dei
giovani) Jaime Ortiz Alzueta e a un allievo della scuola, si diresse in una locanda situata in calle Deputación, dov’era ospitato un fratello di quell’allievo.
Di frequenza si mettevano in contatto con gli altri salesiani, per sapere le notizie più importanti. Tuttavia, col passare dei giorni, si resero conto che la situazione era davvero grave. Trascorrevano pregando tutti i momenti in cui erano in casa.
Quando ebbero trovato la casa di un cappellano, vi si recavano con frequenza per ascoltare la Messa e confessarsi.
A chi gli fece presente che, in quelle circostanze, era un comportamento imprudente, Felipe replicò: «Se devo morire, preferisco vedere la morte faccia a faccia e non essere sorpreso in una trappola per topi».
La sera del 27 luglio 1936, la locanda venne perquisita: Felipe, Jaime e un altro chierico sopraggiunto nel frattempo, Zacarías Abadía Buesa, furono arrestati. Di fronte a chi l’interrogava, il ventitreenne Felipe dichiarò di essere un religioso salesiano e che la sua missione era educare i giovani operai, alla cifra di due pesetas al giorno, affinché potessero guadagnarsi onorevolmente da vivere. Dopo varie torture, vennero uccisi quella stessa notte.
Felipe e i suoi compagni di martirio furono inclusi nella causa capeggiata da don José Calasanz Marqués, composta da 32 Salesiani dell’Ispettoria Tarragonense (circoscrizione regionale salesiana in cui rientra Valencia), comprese due suore Figlie di Maria Ausiliatrice e il già citato don Recaredo de los Rios Fabregat.
Il loro processo informativo iniziò il 15 dicembre 1953 e si concluse il 10 ottobre 1955.
Il decreto sugli scritti si ebbe il 15 novembre 1962.
La convalida del processo informativo avvenne il 28 febbraio 1992 e nel 1995 fu presentata la "Positio super martyrio".
I Consultori teologi la esaminarono il 23 febbraio 1999, mentre il 1° dicembre 1999 fu il turno dei Cardinali e dei Vescovi membri della Congregazione delle Cause dei Santi.
Infine, il 20 dicembre 1999, il Papa San Giovanni Paolo II ha autorizzato la promulgazione del decreto con cui i 32 Salesiani potevano essere dichiarati martiri. Lo stesso Pontefice li ha beatificati l’11 marzo 2001, in una celebrazione che comprendeva in tutto 233 vittime della medesima persecuzione.
La Famiglia Salesiana ricorda tutti i suoi martiri uccisi durante la guerra civile spagnola, ossia i 32 di Valencia e i 63 di Siviglia e Madrid (beatificati il 28 ottobre 2007) il 22 settembre.

(Autore: Emilia Flocchini – Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria - Beato Filippo Hernàndez Martìnez, pregate per noi.

*San Fronimio di Metz - Vescovo (27 Luglio)

Nella lista episcopale della città di Metz occupa il ventesimo posto, ciò che permette di collocare il suo episcopato verso l'anno 500, poiché il ventitreesimo vescovo, Sant'Esperio, assisté nel 535 al concilio di Clermont.
Fronimio morì, secondo la tradizione liturgica, un 27 luglio, dopo otto anni di episcopato, e fu sepolto a Saint-Clement.
Gli altri autori che ne hanno parlato l'hanno spesso confuso con Firmino, undicesimo vescovo della lista.

(Autore: Jacques Choux – Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria - San Fronimio di Metz, pregate per noi.

*San Galattorio di Lescar - Vescovo (27 Luglio)

Martirologio Romano: Nella regione di Béarn presso i Pirenei nella Guascogna francese, San Galattorio, onorato come vescovo di Lescar e martire.
(Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria - San Galattorio di Lescar, pregate per noi.

*Beato Giacomo Ortìz Alzueta - Salesiano Coadiutore, Martire (27 Luglio)

Schede dei Gruppi a cui appartiene:
"Beati 233 Martiri Spagnoli di Valencia Beatificati nel 2001"

"Martiri della Guerra di Spagna"
Pamplona, Spagna, 24 maggio 1913 – Barcellona, Spagna, 27 luglio 1936
Jaime Ortíz Alzueta, spagnolo di Pamplona, nella sua fanciullezza fu turbolento e indisciplinato. A dodici anni fu ammesso nella scuola professionale gestita dai Salesiani di Don Bosco nella sua città, ma se ne andò da solo, di nuovo a causa del suo temperamento irrequieto.
Mentre lavorava in un’officina meccanica, meditò a lungo sulla miseria in cui versavano i suoi colleghi: tornò dai Salesiani e domandò di essere ammesso come coadiutore, ossia religioso non sacerdote addetto all’istruzione tecnica dei giovani. Professò i voti nel 1932.
Nell’estate del 1936 fu travolto dalla persecuzione religiosa che si accompagnava alla guerra civile spagnola: l’istituto di Sarriá presso Barcellona, dove prestava servizio, venne chiuso.
Trovò rifugio nella locanda di una benefattrice insieme a Felipe Hernández Martínez, religioso in formazione verso il sacerdozio, ma il 27 luglio fu arrestato con lui e col confratello chierico Zacarías Abadía Buesa.
Tutti e tre furono uccisi quella stessa notte; Jaime aveva 23 anni. Insieme ai suoi compagni di martirio, è stato incluso nel gruppo di 32 Salesiani dell’Ispettoria Tarragonense (circoscrizione regionale sotto cui ricade Valencia), beatificati l’11 marzo 2001 nella celebrazione in cui, in totale, furono elevati agli altari 233 martiri uccisi durante la guerra civile spagnola. La Famiglia Salesiana ricorda lui e gli altri suoi martiri della stessa persecuzione il 22 settembre.
Martirologio Romano: A Barcellona sempre in Spagna, beati Filippo Hernández Martínez, Zaccaria Abadía Buesa e Giacomo Ortíz Alzueta, religiosi della Società Salesiana e martiri, che patirono il martirio sempre nella stessa persecuzione.
Jaime Ortíz Alzueta, nato a Pamplona, nella provincia spagnola della Navarra, era il capobanda tra i ragazzi del quartiere in cui viveva.
Era temuto e ammirato: ovunque passasse portava il terremoto. Trascorse la sua fanciullezza vagabondando continuamente tra istituti e collegi, che inesorabilmente lo rispedivano a casa dopo averne constatata la sua incorreggibile indisciplina.
Un giorno fece ritorno a casa con la faccia sporca e ustionata dal sole. Suo padre, sconvolto, si precipitò nella casa dei Maristi, dove Jaime avrebbe dovuto essere a scuola, ma si sentì rispondere che suo figlio non si presentava alle lezioni da oltre un mese.
Come ultima possibilità, il 24 maggio 1913, a soli dodici anni, entrò nella Scuola Professionale salesiana della città. Qui rimase miracolosamente incantato dalla figura di san Domenico Savio.
Fu ammesso a far parte della banda musicale, ma il suo vivace ed irrequieto temperamento anche qui non tardò a manifestarsi ed in un momento di dispetto scassò il suo strumento musicale e tornò a casa affermando: «Prima che mi cacciassero anche i Salesiani, sono venuto via da solo».
All’età di 15 anni Jaime lavorava in un’officina meccanica. Questo duro lavoro era anche purtroppo spesso caratterizzato dalla miseria materiale e morale dei suoi colleghi.
Nonostante tutto, la sua apertura al mondo lo portò a ripensare alla sua vocazione e dopo averla covata a lungo dentro di sé, prese una decisione uguale ed inversa a quando aveva sbattuto la porta dei salesiani. Si recò dunque dal direttore chiedendogli: «Se non è troppo tardi, voglio tornare qui e diventare salesiano. Voglio diventare non prete ma maestro di officina, per insegnare ai giovani a lavorare senza perdere la fede e l’anima».
Messo subito alla prova, fu impressionante la radicale trasformazione manifestatasi in lui. Dopo quattro anni, dedicati alla formazione nell’arte meccanica e nella vita cristiana, poté essere ammesso al noviziato. Nel 1932 poté così offrire la sua vita a Dio emettendo i voti di castità, povertà ed obbedienza e divenendo coadiutore salesiano. Assunse come proposito: «Salvarmi l’anima e salvare quella di altri giovani: ecco la mia vocazione».
Studiò ancora a Torino e venne destinato come capomeccanico alla Scuola Professionale di Sarriá, nei pressi di Barcellona. Instancabile lavoratore, si rivelò presto uno splendido figlio di Don Bosco. Sempre pienò di vitalità, era solito raccogliersi in preghiera con i suoi ragazzi, e dopo averli fatti lavorare sodo esplodeva con loro nella tipica allegria del cortile.
Nell’estate del 1936 fu anch’egli sorpreso dalla sanguinosa guerra civile che travolse l’intera Spagna. La scuola venne chiusa.
Insieme con il religioso studente Felipe Hernández Martínez trovò rifugio in una locanda di una benefattrice, che fu perquisita dai miliziani il 27 luglio: furono presi i due salesiani ed anche un terzo, il chierico Zacarías Abadía Buesa, che era venuto per cercarvi rifugio. Per la condanna a morte di Jaime fu addotta come scusa l’aver trovato delle medagliette della Madonna nella custodia del suo clarinetto.
Dopo essere stati torturati, i tre furono uccisi quella stessa notte. Jaime aveva soli 23 anni di età.
Solo dopo alcuni mesi, nella sede dei miliziani, furono rinvenuti a testimonianza del suo martirio dei documenti e delle fotografie, in cui era raffigurato con il petto barbaramente ferito e la faccia deformata da colpi di bastone.
Jaime e i suoi compagni di martirio furono inclusi nella causa capeggiata da don José Calasanz
Marqués, composta da 32 Salesiani dell’Ispettoria Tarragonense (circoscrizione regionale) sotto cui ricade Valencia, comprese due suore Figlie di Maria Ausiliatrice. Il loro processo informativo iniziò il 15 dicembre 1953 e si concluse il 10 ottobre 1955. Il decreto sugli scritti si ebbe il 15 novembre 1962. La convalida del processo informativo avvenne il 28 febbraio 1992 e nel 1995 fu presentata la "Positio super martyrio".
I Consultori teologi la esaminarono il 23 febbraio 1999, mentre il 1° dicembre 1999 fu il turno dei Cardinali e dei Vescovi membri della Congregazione delle Cause dei Santi.
Infine, il 20 dicembre 1999, il Papa San Giovanni Paolo II ha autorizzato la promulgazione del decreto con cui i 32 Salesiani potevano essere dichiarati martiri. Lo stesso Pontefice li ha beatificati l’11 marzo 2001, in una celebrazione che comprendeva in tutto 233 vittime della medesima persecuzione. La Famiglia Salesiana ricorda tutti i suoi martiri uccisi durante la guerra civile spagnola, ossia i 32 di Valencia e i 63 di Siviglia e Madrid (beatificati il 28 ottobre 2007) il 22 settembre.

(Autore: Don Fabio Arduino ed Emilia Flocchini – Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Nessun genitore, guardando alla vita del Beato Jaime Ortíz Alzueta, è autorizzato a disperarsi per il proprio figlio, per scavezzacollo e turbolento egli sia. E nessuno, proprio nessuno, può ritenere un fallimento la propria vita, perché davvero c’è una speranza per tutti.
Jaime, classe 1913, spagnolo di Pamplona, è l’esatto contrario di quello che normalmente si definisce un ragazzo modello: capobanda indiscusso dei ragazzi del suo quartiere, temuto ed ammirato per la sua forza e per la capacità di imporsi a cazzottate, porta il terremoto ovunque passa e si fa espellere dalle scuole di ogni ordine e grado, dopo che i professori hanno constatato la sua incorreggibile indisciplina. Un caso disperato, insomma.
A papà cascano le braccia quando anche dal Collegio dei Maristi gli comunicano che da mesi il figlio dodicenne marina la scuola per andare a scorazzare nelle strade di Pamplona. Lo porta, come tentativo estremo, dai Salesiani di Pamplona per fargli frequentare la scuola professionale.
Qui Jaime resta miracolosamente incantato dalla figura di Domenico Savio e comincia anche a suonare nella banda musicale dell’istituto, ma il "miracolo" ha breve durata: in uno dei suoi frequenti momenti di stizza scassa davanti a tutti il suo strumento musicale e se ne torna a casa, per evitare ai Salesiani il disturbo di cacciarlo dall’Istituto.
Inizia a lavorare in un’officina, un ambiente materialmente e moralmente degradato, e dove inaspettatamente avviene la sua trasformazione. A 15 anni decide di ritornare dai Salesiani, chiedendo con umiltà di essere riammesso nell’Istituto. Ha scoperto la sua vocazione: «Non voglio diventare prete ma maestro di officina, per insegnare ai giovani a lavorare senza perdere la fede e l’anima».
Trasforma la sua vita in modo impressionante, cambiando radicalmente stile e dedicandosi per quattro anni alla formazione nell’arte meccanica e nella vita cristiana. Nel 1932 diventa coadiutore salesiano, emettendo i voti religiosi e prendendo come proposito: «Salvarmi l’anima e salvare quella di altri giovani».
Viene a Torino per studiare, poi lo destinano come capomeccanico nella Scuola Professionale di Barcellona.
È riuscito ad assorbire in pieno lo spirito di don Bosco: fa lavorare sodo i suoi ragazzi in officina, li fa pregare, ma poi esplode insieme a loro con la prorompente vitalità, propria del suo carattere, nell’allegria sfrenata del cortile secondo il più autentico stile salesiano.
Nell’estate del 1936, allo scoppio della guerra civile in Spagna che si trasforma in un’autentica persecuzione nei confronti della chiesa cattolica, la scuola salesiana viene chiusa, gli alunni si disperdono e Jaime, insieme a un religioso studente e a un chierico, trova rifugio nella locanda di una benefattrice.
Qui viene arrestato il 27 luglio: lo massacrano di botte, lo torturano e lo fucilano quella stessa notte con un unico capo di accusa: aver trovato medagliette della Madonna nella custodia del suo clarinetto.
È solo un ragazzo di 23 anni, che da 8 appena è riuscito a dare un’inversione radicale alla sua vita.
Giovanni Paolo II ha beatificato Jaime Ortíz Alzueta nel 2001, insieme ad altri 232 martiri della guerra civile spagnola.

(Autore: Gianpiero Pettiti – Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria - Beato Giacomo Ortìz Alzueta, pregate per noi.

*Beato Giacomo Papocchi da Montieri - Eremita  (27 Luglio)

Montieri, Grosseto, 1213 - 28 dicembre 1289
Nato a Montieri nel 1213. Di professione minatore nelle argentiere del paese. Accusato di un furto del prezioso minerale nella zecca del paese, fu punito con l'amputazione della mano destra e del piede sinistro.
Si ritirò in eremitaggio in una piccola cella adiacente l'antica chiesa vescovile di San Giacomo il maggiore. Confortato da visioni, fra cui la miracolosa Comunione Eucaristica impartitagli da Gesù stesso visse in questa cella per 46 anni in rigorosa penitenza.
Morì il 28 dicembre 1289.
Anche a motivo di alcuni miracoli oltre che per la vita santa, fu invocato subito come Santo dai suoi concittadini, finchè il suo culto fu approvato da Papa Pio VI nel 1798.
Il suo nome è inserito nel Proprio dei Santi della Diocesi di Volterra e il suo corpo è conservato nella chiesa parrocchiale di Montieri dove è venerato da tutto il popolo.
Vivesse oggi, i “no global” ben volentieri lo annovererebbero tra le loro fila e saprebbero di poter contare su un giovane entusiasta, insoddisfatto, “politicizzato”, pronto a battersi per una giusta causa ed a contestare il sistema, disposto alla protesta ed al rischio incontrollato, specialmente di fronte a certe situazioni economico-sociali che proprio non riesce a condividere.
E tutto questo, anche a costo di… perderci un piede ed una mano. Ma andiamo con ordine, facendo un salto indietro nel tempo di almeno 800 anni, tanti quanti ci separano dall’inizio dell’avventura umana del Beato Giacomo Papocchi.
Che nasce, appunto, agli inizi del XIII secolo a Montieri, un paese distante 90 miglia da Siena e che troviamo esuberante e gagliardo minatore, fino ai 30 anni, nelle miniere d’argento disseminate sui fianchi del colle che sovrasta il suo paese natale.
Fino ai 30 anni, dicevamo, quando avviene il fattaccio: Giacomo, insieme ad alcuni giovani del paese, è accusato di furto del prezioso materiale, arrestato e condannato. E che, mettono un ladro sugli altari?, può scandalizzarsi qualcuno.
A parte il fatto che proprio di un ladro (ovviamente pentito) Cristo stesso ha celebrato una “canonizzazione per direttissima” addirittura sul Calvario, del nostro Giacomo Papocchi nessuno si sogna di mettere in dubbio che ladro sia stato.
E ladro raffinato, pure, che punta direttamente alla zecca del paese. La condanna, oggi sicuramente
crudele, all’epoca ritenuta esemplare e prevista dagli statuti cittadini, è l’amputazione di una mano, riservata a chi non vuole o non può pagare la multa prevista per i ladri del prezioso minerale.
A Giacomo, oltre alla mano, amputano anche un piede, perché è andato a rubare argento già raffinato e depositato nella zecca. Una rilettura storica, oggi, porta a ritenere che il gesto ladresco di Giacomo e dei suoi amici non sia semplicemente un furto, ma un segno di aperta protesta verso il sistematico sfruttamento che Siena sta operando sul suo paese e sull’intero circondario.
Un gesto politico, insomma, punito in modo esemplare e plateale con quella doppia mutilazione. Che oltre a lasciarlo invalido, però, gli fa cambiare completamente vita. Di pari passo al cicatrizzarsi delle ferite del corpo si cicatrizzano anche le ferite dell’anima, attraverso la preghiera e la penitenza.
Anzi, il suo desiderio di penitenza e di segregazione, dopo tanta esuberanza e vitalità, è tale da portarlo a chiudersi in una cella, appositamente costruita per lui e addossata alla chiesa di San Giacomo. Si chiude la porta alle spalle, anzi la fa murare, per non uscire da quella cella mai più. Per 46 anni, tanti quanti gli restano da vivere.
E non per la sua pur comprensibile difficoltà a camminare, ma soltanto per il suo desiderio di restare con “Dio solo”.
Lo chiameranno “il Murato”, perché in pratica la sua fu un’esistenza di “murato vivo”, al punto che per consentirgli in qualche modo di raggiungere la chiesa dovettero scavare un cunicolo che collegava questa alla sua piccola cella.
Qui muore il 28 dicembre 1289, quando ormai la sua fama si è sparsa all’intorno e la gente sa di avere un santo, abbarbicato sul monte, che prega per loro.
E la devozione si diffonde subito, in un misto di venerazione e patriottismo, è attestata già dieci anni dopo la morte e rimane inalterata attraverso i secoli. Tanto che Papa Pio IV, nel 1798, è costretto a prenderne atto ed a confermare il culto del Beato Giacomo Papocchi.
Il 27 luglio di ogni anno Montieri festeggia il suo patrono, ex ladro e rivoluzionario mancato, ma soprattutto recluso, anzi, murato vivo per amore.

(Autore: Gianpiero Pettiti)
Giaculatoria - Beato Giacomo Papocchi da Montieri, pregate per noi.

*Beato Gioacchino Vilanova Camallonga - Sacerdote e Martire (27 Luglio)

Scheda del gruppo a cui appartiene:
“Beati 233 Martiri Spagnoli di Valencia Beatificati nel 2001”
“Martiri della Guerra di Spagna”
Martirologio Romano: Nella cittadina di Ollería nel territorio di Valencia in Spagna, Beato Gioacchino Vilanova Camallonga, sacerdote e martire, che in tempo di persecuzione contro la fede raggiunse la gloria celeste.
Il Beato Gioacchino Vilanova Camallonga nacque il 6 ottobre 1888 a Ontenyent in provincia di Valencia. Sin dall'infanzia ha dimostrato la sua inclinazione al sacerdozio.

Di lui sappiamo ben poco.
Aveva una sorella religiosa.
Il Beato Gioacchino Vilanova Camallonga dopo le prime scuole è entrato nel Collegio delle Vocazioni.
Nel 1920 è stato ordinato sacerdote. Dapprima fu destinato a Quatretondeta e successivamente a Ibi di Alicante. Come sacerdote si è sempre distinto per la sua gentilezza e il suo spirito di servizio.
Era amato da tutti i suoi parrocchiani.
Il Beato Gioacchino Vilanova Camallonga è stato fucilato il 29 luglio 1936, in Ibi di Alicante dai rivoluzionari, per il solo fatto di essere sacerdote,
Gioacchino Vilanova Camallonga è stato beatificato nel gruppo di 233 martiri a Valencia da San Giovanni Paolo II l'11 marzo 2001.

(Autore: Mauro Bonato - Fonte: Enciclopedia dei Santi)

Giaculatoria - Beato Gioacchino Vilanova Camallonga, pregate per noi.

*Santi Giorgio, Aurelio, e Compagni – Martiri a Cordoba in Spagna (27 Luglio)

A Cordoba in Spagna, ricordo dei Santi Martiri Giorgio, diacono e monaco siro, Aurelio e Sabigotone, coniugi, e Felice e Liliosa, anch'essi coniugi, che, durante la persecuzione dei Mori, ardenti di desiderio di testimoniare la fede di Cristo, non cessarono mai, in carcere, di lodare Gesù, fino al momento della decapitazione.
(Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria - Santi Giorgio, Aurelio, e Compagni, pregate per noi.

*Sante Giuliana e Semproniana – Vergini e Martiri (27 Luglio)

Ad Illuron presso Barcellona, ricordo delle SS. Giuliana e Semproniana, Vergini e Martiri.
(Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria - SS. Giuliana e Semproniana, pregate per noi.

*Beato Giuseppe Maria Ruiz Cano - Sacerdote e Martire (27 Luglio)
Schede dei Gruppi a cui appartiene:
"Beati Martiri Spagnoli Clarettiani di Siguenza"
Senza data (Celebrazioni singole)
"Beati 522 Martiri Spagnoli" Beatificati nel 2013
Senza data (Celebrazioni singole)
"Martiri della Guerra di Spagna"
Senza Data (Celebrazioni singole)
(Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria - Beato Giuseppe Maria Ruiz Cano, pregate per noi.

*Santa Giustina - Vergine e Martire (27 luglio)
Emblema: Palma
"Corpo santo" venerato nella chiesa parrocchiale di Bellusco (MI) dal 1808.
La memoria liturgica celebrata inizialmente il 27 luglio (anniversario dell'arrivo del santo corpo), fu poi trasferita alla prima domenica di Settembre con decreto della Sacra Congregazione dei Riti in data 28 maggio 1816.

(Autore: Don Marco Grenci - Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria - Santa Giustina, pregate per noi.

*Beato Guglielmo Davies - Martire (27 Luglio)

Martirologio Romano: A Beaumaris in Galles, Beato Guglielmo Davies, sacerdote e martire, che nella medesima persecuzione, per il solo suo sacerdozio, dopo aver pregato per i presenti, subì lo stesso supplizio.
(Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria - Beato Guglielmo Davies, pregate per noi.

*Beata Lucia Bufalari di Amelia (27 Luglio)

m. 27 luglio 1350
Nacque, secondo la tradizione, a Porchiano del Monte, presso Amelia, in Umbria, nei primi anni del secolo XIV; come già il fratello Giovanni (Beato Giovanni Bufalari), decise di seguire gli insegnamenti degli agostiniani, stabilitisi in Amelia verso la metà del Duecento; così, insieme ad altre donne, si ritirò in un’abitazione nelle vicinanze del convento di Sant'Agostino guidando le consorelle in una vita di fede e di preghiera fino alla morte, avvenuta il 27 luglio 1350.
Da subito venne invocata quale protettrice delle malattie dei bambini.
Il suo corpo fu deposto nella chiesa di Sant'Agostino e di lì, nel 1925, traslato in quella di S. Monica dove, nel secolo XVI, era sorto il monastero delle agostiniane; qui è rimasto fino a pochi anni fa; poi, a causa della partenza delle monache e della recente inagibilità della chiesa, nel maggio 2011 è stato ricollocato sotto un altare della chiesa concattedrale di Amelia.
Il culto della Beata Lucia fu confermato da Gregorio XVI il 3 agosto 1832. La festa si celebra il 27 luglio.

Martirologio Romano: Ad Amelia in Umbria, Beata Lucia Bufalari, vergine, sorella del Beato Giovanni da Rieti, delle Oblate dell’Ordine di Sant’Agostino, insigne per il suo spirito di penitenza e lo zelo per le anime.
Una tradizione plurisecolare, non accertabile però attraverso nessun documento, dice che la beata sia nata a Porchiano del Monte, un paese a pochi chilometri da Amelia, dove invece, verso la metà del Duecento era sorto il convento degli agostiniani, la cui spiritualità attirò certamente la giovane Lucia e anche il fratello di lei, Giovanni, entrato in convento e trasferito ben presto a Rieti, dove morì giovanissimo e, per questo, conosciuto spesso con il nome di beato Giovanni da Rieti (festa il 1° agosto).
La più antica delle fonti “storiche” a disposizione per tracciare un profilo biografico della vita della Beata Lucia sono i Secoli agostiniani, di Luigi Torelli, utilizzati poi anche da Ludovico Jacobilli, ma ambedue gli autori sembrano nutrirsi più di stereotipi che di eventi storici.
Il Torelli parla infatti della richiesta avanzata dalla giovane Lucia ai suoi genitori di poter entrare tra le Terziarie agostiniane «nel reclusorio che in Amelia avevano le nostre religiose»: ma ad Amelia non c’era nessun reclusorio nel Trecento, né alcun monastero femminile che seguisse la regola agostiniana di cui sia arrivata fino a noi una qualche documentazione.
E allora? La logica conclusione ci porta subito ad affermare che si tratta di un’invenzione erudita, agiografica, seicentesca, creata dal Torelli per rimpolpare la sua storia dell’Ordine, per rendere meno scarne le poche notizie che si conoscevano sulla Beata, la quale godeva, certamente già da secoli, di un diffuso culto popolare, attestato, anche questo però solo da documenti seicenteschi e da numerosi ex voto conservati nella chiesa di Sant' Agostino.
È quanto afferma anche il p. Giovanni Lupidi in un volumetto di Memorie storiche apparso in coincidenza con la traslazione del corpo alla chiesa di Santa Monica.
Il Torelli invece continua a descrivere mortificazioni e penitenze cui la Beata si sottoponeva, ma questo è un topos, un luogo comune a moltissime vite di Santi, arricchitesi di leggende ed aneddoti fino almeno alla metà del Novecento; e così il cronista agostiniano continua a parlarci dell’affabilità della Beata, delle sue tante virtù che convinsero le consorelle ad eleggerla loro Priora, anche se era una delle più giovani.
Anche qui però, forse, la verità storica è stata un po’ forzata: non abbiamo nessun documento coevo che attesti la presenza di una comunità strutturata di oblate agostiniane.

Possiamo però pensare che qualche gruppo di “terziarie” vivesse davvero all’ombra del convento maschile: infatti, proprio in un angolo dell’ormai ex monastero di Santa Monica, è stata sempre indicata dalla pietà popolare la stanza dove la Beata Lucia sarebbe vissuta e morta, e all’interno della quale era posto un quadro di Giacinto Gimignani che la ritraeva; poi, la partenza delle monache e la successiva inagibilità del monastero hanno fatto cadere nel dimenticatoio anche questo luogo caro all’antica pietà popolare degli amerini.
La Beata venne sepolta nella sacrestia di Sant’Agostino, in una tomba singola e ben riconoscibile, sicuro indizio della devozione che circondava Lucia.
E dinanzi alla tomba cominciarono presto a fiorire i miracoli, soprattutto a favore di bambini “ammaliati e affatturati”, cioè colpiti dal “malocchio” di qualche invidioso, pratica che la Chiesa allora approvava e sosteneva, almeno quando venivano invocati i suoi Santi per debellare il demoniaco artefice del male.
I documenti storici iniziano però solo nel 1614 quando gli Anziani del Comune di Amelia attestano con un atto pubblico che il corpo incorrotto della Beata «era conservato nella sacrestia della chiesa di Sant' Agostino ed era considerato e venerato da tutti gli abitanti della città come quello di una Santa».
Corpo che, negli anni seguenti, venne riesumato dalla tomba primitiva, posto in un’urna di legno dorato ed esposto su un altare della chiesa, dove rimase fino al 24 aprile 1925 quando, con una solenne cerimonia, venne riposto in una nuova urna e ricollocato sotto un altare della chiesa del monastero di S. Monica, dove è rimasto fino alle ultime vicende descritte di sopra.

(Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria - Beata Lucia Bufalari, pregate per noi.

*Beata Maria Clemenza di Gesù Crocifisso (Elena) Staszewska - Vergine e Martire (27 Luglio)
Scheda del gruppo a cui appartiene la Beata Maria Clemenza di Gesù Crocifisso:
“Beati 108 Martiri Polacchi”
Zloczew, Polonia, 30 luglio 1890 – Auschwitz, Polonia, 27 luglio 1943

La Beata Maria Klemensa di Gesù Crocifisso (al secolo Elena Staszewska), professa dell'Ordine di Sant'Orsola dell'Unione Romana, nacque a Zloczew, Polonia, il 30 luglio 1890 e morì ad Auschwitz-Birkenau, Germania (oggi Polonia), il 27 luglio 1943.
Fu beatificata da Giovanni Paolo II a Varsavia (Polonia) il 13 giugno 1999 con altri 107 martiri polacchi.

Martirologio Romano: Ad Auschwitz vicino a Cracovia in Polonia, Beata Maria Clemente di Gesù Crocifisso Staszewska, vergine dell’Ordine di Sant’Orsola e martire, che, durante la guerra, relegata per la sua fede nel disumano carcere di questo campo di sterminio, morì logorata dalle torture.  
(Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria - Beata Maria Clemenza di Gesù Crocifisso Staszewska, pregate per noi.

*Beata Maria della Passione (Maria Grazia Tarallo) - Religiosa (27 Luglio)
Barra - Napoli, 23 settembre 1866 – S. Giorgio a Cremano (NA), 27 luglio 1912
Maria Grazia Tarallo nacque a Barra allora Comune autonomo, poi divenuto un quartiere della zona orientale di Napoli, il 23 settembre 1866 da famiglia benestante, seconda di sette figli.
Trascorse l’infanzia e l’adolescenza formandosi ad una vita di pietà e manifestando già una precoce primavera dello spirito; a 25 anni, superata l’accanita opposizione dei genitori Leopoldo e Concetta Borriello, entrò nel 1891 nel monastero delle Crocifisse Adoratrici dell’Eucaristia in S. Giorgio a Cremano, accolta dalla fondatrice Maria Pia della Croce - Notari, che appena un anno prima aveva fondato la nuova Congregazione, il cui principio ispiratore era la riparazione dei peccati del mondo, in un‘epoca in cui imperava la massoneria e la religione era contrastata in ogni modo.
Si dava un culto speciale alla Passione di Cristo e ai dolori di Maria, con l’adorazione perpetua del SS. Sacramento e penitenza austera, il tutto era condensato nel nome: Crocifisse Adoratrici, inoltre le suore erano dedite all’aiuto delle parrocchie e la preparazione sin dal grano, delle ostie e del vino per la celebrazione della Messa.
Maria Grazia, che aveva preso il nome di Maria della Passione, aderì con entusiasmo a questo spirito e diventerà man mano una vera vittima riparatrice e il centro di tutta la sua preghiera e sofferenza sarà la santificazione dei sacerdoti.
Si allontanò, nei suoi 20 anni da religiosa, solo due volte da S. Giorgio a Cremano, nel 1894 per due anni, insieme ad altre undici suore a fondare una nuova casa a Castel S. Giorgio nel salernitano e per altri due anni nella casa istituita nel complesso monastico di S. Gregorio Armeno, nel centro antico di Napoli.
Nel 1910 fu fatta maestra delle novizie, compito che svolse con amore e dedizione, nel contempo già da tempo aveva visioni, estasi, stigmate, chiaroveggenze, profezie, vessazioni diaboliche, che attirarono su di lei l’attenzione dei contemporanei, accrescendo la sua fama di santità.
Consumata dalle lunghe veglie di preghiera e dalle penitenze, morì a 46 anni a S. Giorgio a Cremano, dov’è tumulata, il 27 luglio 1912.
Il 14 maggio 2006, nel Duomo di Napoli, è stata proclamata la prima Beata napoletana e dell’Italia Meridionale, del pontificato di Papa Benedetto XVI; la celebrazione è stata presieduta secondo le nuove norme, dal cardinale José Saraiva Martins, Prefetto della Congregazione per le Cause dei Santi, concelebranti i cardinali Michele Giordano, arcivescovo di Napoli e Agostino Vallini, Prefetto della Suprema Segnatura Apostolica.
Suor Maria della Passione (al secolo Maria Grazia Tarallo), è la prima Beata appartenente alla Congregazione delle Suore Crocifisse Adoratrici dell’Eucaristia, fondata nel 1890 dalla Serva di Dio Maria Pia Notari (1847-1919), il cui processo per la beatificazione è stato introdotto il 13 aprile 1921.
Caso abbastanza raro, si tratta di una Beata al cui processo testimoniò personalmente la stessa fondatrice, con la quale aveva convissuto 21 anni della sua vita, e che le sopravvisse sette anni; avendo così il tempo e l’opportunità di scrivere la prima e più genuina biografia della più giovane consorella, suora della prima ora della nascente Congregazione.
Nascita e famiglia
Maria Grazia Tarallo, nacque a Barra, oggi quartiere periferico di Napoli, ma allora Comune autonomo, il 23 settembre 1866 da Leopoldo Tarallo, giardiniere comunale e da Concetta Borriello, donna dalla grande vitalità.
Maria Grazia Tarallo ebbe in famiglia altri sei tra fratelli e sorelle, di cui due morti bambini, sopravvissero Gabriele e Vitaliano maschi e Drusiana e Giuditta diventate anche loro suore della stessa Congregazione, con il nome rispettivamente di Maria del Sepolcro e Maria della S. Lancia.
Maria Grazia visse sempre nell’ambito familiare a Barra, ricevendo una rudimentale istruzione prima frequentando una scuola privata e poi quella delle Suore Stimmatine; fece la Prima Comunione il 7 aprile 1873 eccezionalmente a quasi sette anni, con il permesso del parroco che la ritenne matura.
Era ancora una bambina, quando acquistò la stima e l’ammirazione di molte famiglie di Barra, diventando per il suo fervore nell’orazione, buon esempio alle sue coetanee.

Il matrimonio civile per obbedienza
Aveva 23 anni, quando il padre Leopoldo, uomo autoritario, volle imporle la sua volontà di farla sposare, nonostante che Maria Grazia avesse espresso il desiderio sin dall’adolescenza di farsi suora.
Così la futura Beata, dovette accettare come fidanzato il giovane Raffaele Aruta, ma tenendo sempre nel cuore la vocazione religiosa; rassicurandola con vaghe promesse, il padre la condusse il 13 aprile 1889 nel Municipio di Barra, facendole alfine accettare ufficialmente il giovane promesso sposo con il rito civile, rimandando in un secondo momento, secondo una prassi diffusa allora, il matrimonio in chiesa, con i giovani che ritornavano nel frattempo, a vivere nelle rispettive famiglie.
L’Autobiografia, racconta che al ritorno dal Municipio, durante il consueto rinfresco in casa con i parenti, il giovane Raffaele Aruta ebbe uno sbocco di sangue, sintomo della tubercolosi che flagellava la popolazione dell’epoca, colpendo ogni età e sesso.
Mettendo in atto la cura principale che si conosceva, cioè il cambiamento di aria, fu portato a Torre del Greco alle pendici del Vesuvio, zona di aria salubre, dove però il male si aggravò irrimediabilmente e il povero giovane morì il 27 gennaio 1890, nove mesi dopo il matrimonio civile con Maria Grazia, che pur non recandosi al suo capezzale, aveva tanto pregato per la sua accettazione della volontà di Dio.
Il padre rimase fortemente scosso dall’accaduto e cominciò ad ammorbidire l’ostilità per la vocazione religiosa della figlia.

Nel monastero delle Crocifisse Adoratrici di Gesù Sacramentato
Il 1° giugno 1891, accompagnata dal padre e con la buona relazione scritta del suo confessore don Domenico Romano di Barra, Maria Grazia Tarallo a 25 anni, si presentò a Madre Maria Pia della Croce (Maddalena Notari) fondatrice e superiora della nuova Congregazione delle “Suore Crocifisse Adoratrici di Gesù Sacramentato”, istituita con l’incoraggiamento del cardinale arcivescovo Guglielmo Sanfelice, il 20 novembre 1885 e che da appena due mesi, nell’aprile 1891, aveva aperto il monastero di San Giorgio a Cremano, che diventerà la Casa Madre della nascente Congregazione.
La Madre Fondatrice e le prime suore della Comunità, furono molto contente della nuova postulante, che si distinse subito per umiltà, docilità e amore al lavoro.
Madre Notari, al processo diocesano testimoniò, che Maria Grazia Tarallo giunse al monastero preceduta da alcune voci, che le attribuivano il dono di una visione della Vergine Addolorata, circondata dai Santi Sette Fondatori dei Servi di Maria, così come attualmente è raffigurata nel gruppo di statue presenti su un altare laterale della Cappella della Casa Madre.
Inoltre lei aveva sognato le Suore di quell’Istituto, con una ‘pazienza rossa’ (larga striscia di panno che scende per tutta la persona sul davanti e dalle spalle), mentre invece nella prima versione dell’abito delle suore, era nera e tale era al tempo di Maria Grazia, fu cambiata in rosso anni dopo, quando fu approvata la Regola dalla Santa Sede.
Dopo il probandato, prese l’abito religioso e il nome di Maria della Passione, nome tratto a sorte, che le fece molto piacere, perché nel suo animo ella era già una mistica della Passione di Cristo.
Le sue doti e virtù si esternarono soprattutto durante il noviziato, iniziato l’11 novembre 1891, con la soddisfazione della maestra delle novizie e l’ammirazione delle altre consorelle, fu ammessa alla Professione dei voti il 20 novembre 1892.
Svolse nell’ambito della Comunità vari incarichi sempre con zelo, attenzione, sacrificio di sé stessa, per la gloria di Dio e il bene spirituale delle anime.

Il percorso storico della Congregazione
Le Suore Crocifisse già al tempo della Fondatrice, si sono contraddistinte tenendo conto della vita sociale e degli orientamenti delle organizzazioni del tempo, istituendo scuole, dedicandosi alla catechesi e attività parrocchiali, all’adorazione di Gesù Eucaristia, all’assistenza educativa e sociale
dei fanciulli, all’animazione liturgica, alla confezione delle ostie e del vino per la celebrazione delle Messe. Il nuovo Istituto fu riconosciuto ed ottenne il "Decreto di approvazione" il 6 maggio 1902.
Le origini furono in un modestissimo appartamento in Piazza del Gesù Nuovo a Napoli, proseguendo poi in forma stabile ed ampia nel 1891, nella Casa di San Giorgio a Cremano; dopo quattro anni di adattamento, le Suore Crocifisse, incontrando le poche benedettine rimaste nel monastero di S. Gregorio Armeno, ebbero affidato il monumentale complesso storico dalla badessa Giulia Carovita, preoccupata dei tesori d’arte inestimabili, che sarebbero andati dispersi dopo l’inevitabile chiusura.
Così il 2 dicembre 1922, le Suore Crocifisse si trasferirono nell’incantevole monastero posto nell’antico centro greco-romano di Napoli.
Oltre a S. Giorgio a Cremano, la fondatrice aprì altre Case a Castel S. Giorgio (SA), a Via Tribunali a Napoli, Capriglia (AV) dov’era nata e altre ancora si aprirono in seguito; tuttora funzionanti, a Gaeta (LT), Rutigliano (BA), Nocera Superiore (SA), Roma, Longobucco (CZ), Conversano (BA), Monopoli (BA), Abbiategrasso (MI), Castel del Piano (GR).
Da qualche anno, la Congregazione che dal 1978 ha cambiato il nome in “Suore Adoratrici dell’Eucaristia”, ha aperto altre Case a Manila (Filippine), Santa Cruz Mindanao (Filippine), Huanuco (Perù) e Indonesia; da queste terre di missione, sono affluite molte delle moderne suore, che hanno rinverdito il secolare albero dell’Istituzione di Madre Maria Pia Notari.

Il percorso da religiosa di Maria della Passione
Due anni dopo la Professione, il 21 novembre 1894, suor Maria della Passione ebbe il trasferimento nella nuova Casa di Castel S. Giorgio (SA), rimanendovi fino al gennaio 1897 quando ritornò a San Giorgio a Cremano; dall’estate 1902 ebbe come padre spirituale don Luigi Fontana, che raccolse gli intimi aneliti mistici della futura Beata e ne sarà fedele interprete e custode, scrivendo più biografie.
Il 18 marzo 1903, suor Maria della Passione fece la sua professione perpetua; il 18 agosto 1904 fu trasferita a Napoli in Via Tribunali, rimanendovi fino alla chiusura della Casa nel gennaio 1906, e ritornando poi a San Giorgio a Cremano.
In questo periodo sangiorgese, suor Maria, come diremo più avanti, subì maltrattamenti violenti da parte del demonio, in particolare quando su invito della fondatrice, prese a pregare intensamente per la conversione di un peccatore; in quell’occasione l’attacco fu così violento da riportare al braccio destro un trauma, che produsse una piaga profonda.
Il 20 febbraio 1907, fu necessario un intervento chirurgico, in cui fu asportato un legamento importante e Maria della Passione non poté più articolare il braccio che rimase inerte; solo tre giorni prima di morire, alla presenza della Madre Fondatrice e di altre suore che circondavano il letto, fu vista con meraviglia, alzare quel braccio che non muoveva da più di cinque anni e farsi il segno della Croce.
Pur invalida ai lavori, poté svolgere altri incarichi in seno alla Comunità, sempre con zelo e obbedienza, dal 1909 al 1910 fu Vicaria della locale superiora di Casa Madre e dal 1910 al 1912 svolse il delicato ed importante ruolo di Maestra delle novizie, fino alla morte avvenuta il 27 luglio 1912 a San Giorgio a Cremano.
Lei l’aveva prevista un mese prima e morì di una malattia non ben definita, benché l’avessero visitata ben quattro medici, fra cui anche il nipote della Fondatrice, dott. Notari dimorante a Milano.

La sua spiritualità e carismi
L’aspetto spirituale fu esposto efficacemente nelle dichiarazioni della Madre Fondatrice e del padre spirituale don Luigi Fontana. Ne uscì il quadro di una delle figure femminili tra le più significative della storia della mistica della Chiesa di Napoli, che diede un particolare significato alla sua vita, dedicata alle vicende terrene di Cristo e alla meditazione della sua Passione.
Tra gli elementi della sua multiforme personalità, emerge l’amore all’Eucaristia, preceduto dall’amore per la Passione di Gesù, per giungere alla riparazione come vittima di espiazione; inoltre per suor Maria della Passione, la devozione alla Vergine Addolorata ebbe un posto centrale nella sua vita, considerandola Madre e Maestra per entrare in profondità nel mistero di Cristo.
Tutto era in piena identità al carisma della fondatrice, sua guida e confidente e sua contemporanea, vivendo al suo fianco gli sviluppi della nascente comunità.
Trascorreva lunghe ore davanti al Tabernacolo in adorazione di Gesù Eucaristia, tanto che occupando un posto di passaggio delle suore nel Coro, che ne traevano ostacolo, la madre superiora fu costretta ad assegnarle un posto più appartato e tranquillo.
La preghiera era la sua maggiore occupazione, restava in Coro in adorazione fino alle tre o quattro di notte, a volte l’intera notte; visse del tutto distaccata dalle cose della terra, accontentandosi di quanto le passava la Comunità.
Suor Maria della Passione, prese a cuore la missione d’immolarsi come vittima riparatrice per i peccatori e specialmente per i sacerdoti che avevano deviato dal loro ministero; per questo scopo digiunava e si disciplinava fino al sangue, anche per riparare i sacrilegi commessi contro la Santa Eucaristia.
Col trascorrere degli anni la sua fama di donna prudente capace di consigli, si estese anche fuori dal monastero e molte persone le si rivolgevano con una certa periodicità, per avere consigli, preghiere, conforto e coraggio; cosa che era abituale per le altre suore e spesso per la stessa fondatrice che a lei si confidavano, infine bisogna dire che vari sacerdoti della diocesi, le si rivolgevano per aumentare la loro fede o per vincere i loro travagli interiori.
Obbedientissima al direttore spirituale e alla superiora, usava questa virtù per interrompere i lunghi digiuni e le privazioni di determinati cibi, o per assumere qualche bevanda; i suoi superiori dovevano appunto ricorrere all’obbedienza per farla nutrire.
Ebbe il dono della profezia, che lasciava gl’interessati stupiti, fra i quali il card. Prisco a cui predisse la sua consacrazione ad arcivescovo di Napoli; scrutava i cuori, aveva delle estasi; la Madre Fondatrice e il direttore spirituale padre Fontana, asserirono che suor Maria della Passione aveva delle stimmate sui piedi e sul petto; infine vi furono delle guarigioni prodigiose, a cui assistettero la Fondatrice e altre suore.
Le provocazioni e tormenti del demonio
Suor Maria, sostenne sempre con forza e con rassegnazione molti assalti e molestie da parte del demonio, che la tormentava e spaventava con visioni terribili e con percosse.
Con grande semplicità confidò a Madre Notari, che la scottatura che si vedeva sulla guancia e sulla mano destra, gliela aveva fatta il demonio in una delle sue torture; di notte fragori provenivano dalla sua stanza, spaventando enormemente le altre suore, che dicevano che era il demonio che maltrattava suor Maria della Passione.
Il culmine di questi attacchi fu la grave ferita, prima menzionata, che le fu inferta al braccio destro dal demonio e che dopo l’operazione chirurgica per guarirla, rimase senza forza rendendola invalida, tanto che non poté più svolgere i compiti assegnatole.
Questo aspetto della vita della futura Beata, è stato certamente il più complesso a decifrare, vista la naturale e proverbiale prudenza della Chiesa, a dare un valore superiore ai fenomeni, che in altri casi potevano essere classificati come sintomi e disturbi neuropatologici; fu per questo in seguito oggetto di perizie specialistiche e di teologi, fra cui padre Agostino Gemelli.
Certamente Maria della Passione fu una semplice suora, che divenne una grande figura contemplativa e mistica, anche se non è stata di forte grido, ma merita di essere conosciuta per l’originalità e completezza di fenomeni mistici, di cui fu arricchita per singolare dono di Dio.

La fama di santità; verso gli altari
L’epilogo della strana malattia che l’aveva colpita, durò una quindicina di giorni, durante i quali suor Maria ebbe fenomeni fisici particolari, come quello di sporgere la lingua distesa per ricevere la Santa Comunione, quando da 15 giorni non prendeva alimenti e non riusciva a deglutire una goccia d’acqua, tanto che la lingua era diventata arida da sembrare attorcigliata.
Inoltre il braccio destro, che da cinque anni era come paralizzato e penzoloni, tre giorni prima della morte, prese a muoversi normalmente fra la meraviglia di tutti i presenti e lei si fece agevolmente il segno della croce.
Morì il 27 luglio 1912 e per tre giorni la salma rimase esposta nella chiesa del monastero, rimanendo flessibile e senza alcun segno di decomposizione.
Da S. Giorgio a Cremano e dai paesi vicini affluirono tanti fedeli a rendere omaggio alla “monaca santa”; i funerali si svolsero con un gran concorso di popolo e la salma fu trasportata a spalla dalle novizie fino al vicino cimitero cittadino e lì inumata nella Cappella del signor Tarallo, devoto di suor Maria.
Il 9 novembre 1916 il suo corpo, essendosi concluso il processo ordinario iniziato l’11 marzo 1913, fu traslato dalla Cappella privata nella Chiesa principale del Cimitero, dove rimase fino al 20 aprile 1924, quando i resti mortali della Serva di Dio suor Maria della Passione, furono trasferiti nella Chiesa del Monastero delle Suore Crocifisse Adoratrici dell’Eucaristia, dove sono tuttora, e recentemente ricomposti in un’urna di cristallo.
In quell’occasione, era presente il giovane Francesco Cimino di 21 anni di Nocera Superiore, affetto da grave tracoma agli occhi, che l’aveva reso quasi cieco con grossi disturbi e sofferenze. Assisté alla funzione religiosa, accompagna6ta dalla zia; la sua famiglia era conosciuta da padre Luigi Fontana, diventato postulatore della Causa di beatificazione e biografo della Serva di Dio, il quale prendendo la reliquia del braccio, la pose sugli occhi del giovane Francesco, che guarì subito riacquistando la vista.
Questo miracolo, riconosciuto dalle autorità mediche, è stato determinante per la proclamazione a Beata di suor Maria della Passione, avvenuta a Napoli il 14 maggio 2006 con crimonia di beatificazione presieduta dal Cardinal Jose Saraiva Martins. In seguito, due figlie del miracolato, divennero suore nella medesima Congregazione.
Si adempie così il desiderio espresso dall’allora giovane novizia Maria Grazia Tarallo: “Voglio farmi santa, amando Cristo nell’Eucaristia, soffrendo col Cristo Crocifisso, guardando il Cristo nella persona del fratello”.

(Autore: Antonio Borrelli – Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria - Beata Maria della Passione, pregate per noi.

*Beata Maria Maddalena (Margherita) Martinengo - Religiosa (27 Luglio)
Brescia, 4 ottobre 1687 – 27 luglio 1737
Della nobile famiglia Martinengo. All’età di 18 anni entrò nel monastero delle Clarisse Cappuccine. Per le sue esimie virtù, fu ben presto prescelta prima come maestra delle novizie, poi come Abbadessa. Lasciò alcuni scritti di alta mistica. Dotata in vita di carismi celesti e di una visibile conformità a Cristo Crocifisso.
Martirologio Romano: A Brescia, Beata Maria Maddalena Martinengo, badessa dell’Ordine delle Clarisse Cappuccine, celebre per i suoi digiuni.
Margherita Martinengo nacque a Brescia il 4 ottobre 1687. La sua era una famiglia importante: il padre, Conte Leopardo, era Capitano della Repubblica Veneta. Per le complicazioni del parto la mamma, Margherita Secchi d’Aragona, morì dopo cinque mesi; la beata ne aveva ereditato il nome.
Crebbe in un ambiente sereno, con diverse nutrici, ma nonostante le cure fu sempre malaticcia, soffrendo in particolare di debolezza di stomaco. All’età di cinque anni prese come mamma e modello la Madonna.
Frequentò la scuola delle Orsoline manifestando predisposizione per la lettura e la preghiera. Il palazzo dei Martinengo aveva una ricca biblioteca, oltre a molte opere d’arte. Di quegli anni si ricorda un episodio singolare: un giorno cadde dalla carrozza in corsa senza farsi alcun male. Disse di aver sentito il suo Angelo Custode prenderla in braccio.
A dieci anni fu accolta dalle Agostiniane, ove vi erano due zie, per perfezionare la sua istruzione e la sua spiritualità. Il momento tanto atteso della Prima Comunione ebbe un risvolto eccezionale: la sacra particola cadde a terra, Margherita si prostrò e la prese dal pavimento. Un freddo improvviso la scosse, sentì dentro di sé la presenza di Dio.
Due anni dopo, per sottrarsi alle attenzioni delle due zie monache, andò dalle Benedettine dove erano religiose altre due zie. Anche queste però erano più preoccupate della sua futura collocazione sociale che del travaglio interiore che stava vivendo.
Con le altre convittrici era allegra e vivace e amava ripetere che voleva farsi santa. Pensavano scherzasse, ma il Signore faceva sul serio. A tredici anni fece voto segreto di verginità. Tre anni dopo si prospettò l’idea di un buon matrimonio: Margherita disse al padre che voleva farsi cappuccina, ma trovò una ferma opposizione. Seguirono mesi di incertezze. Fece un periodo di prova proprio dalle Cappuccine, poi un viaggio col padre a Venezia. Tornata a casa passò un’intera notte in preghiera, poi prese la decisione definitiva: le vesti eleganti da contessina cedevano il posto al rude saio.
Entrò in monastero l’8 settembre 1705, condotta da un corteo di carrozze. Scrisse: “che spasimo provai quando feci l’ingresso! Diedi quel passo con tanta violenza che credo di certo non sarà più grande quella del separarsi l’anima dal corpo”. Prendeva il nome della Penitente che era stata la prima Testimone del Risorto.
La vita della comunità, una trentina di suore, era scandita dalla preghiera, cinque ore di giorno e tre di notte, e dal lavoro. Il rapporto con la maestra delle novizie fu burrascoso, ma suor Maria Maddalena soffrì nel silenzio. Per nulla al mondo, anche se le sue origini erano nobili, avrebbe voluto primeggiare. Le novizie svolgevano i lavori più semplici: coltivare l’orto, accudire agli animali, cucinare.
Essa non li aveva mai fatti prima eppure era tra quelle che lavoravano di più. Soprattutto però ebbe inizio un rapporto profondo col Signore, scrisse: “la mia orazione non ha mai principio perché non ha mai fine, vivendo sempre unita a Dio nel mio interno”. Le sue facoltà erano “tutte ingolfate in Dio”.
Alcune ore della notte, invece del riposo, le dedicava alla preghiera, “specchio nel quale si mira Dio”. La sua unione con l’Altissimo è totale: “quanto più mi profondo nel mio niente tanto più mi perdo in Dio e mi scordo del tutto di me”. Amava molto il silenzio ma col suo carattere gioviale non mancava di rallegrare le consorelle con composizioni poetiche. Iniziarono i disturbi di salute che l’accompagneranno per tutta la vita.
Fece la professione con un “amore ardentissimo a Dio intenso e continuo, che abbruci ogni difetto ogni imperfezione ogni neo di colpa”. L’umile suora iniziò anche un magistero attraverso la corrispondenza diretta ai familiari e a religiose di altri monasteri. Cristo “parve mi si mutasse il cuore, dandomi Gesù il suo divin cuore, vera fornace di sempiterno amore”. Aveva il grande timore di non essere diligente.
Era consueto, a quei tempi, imporsi penitenze con cilici, suor Maria Maddalena ne aveva a decine. Guardava Colui che si era caricato di tutti i mali del mondo morendo sulla croce.
Quali mai potevano essere i suoi peccati? La risposta è che chi vuole uniformarsi a Dio si sente continuamente imperfetto: “la strada del patire e dell’annegar se stessi è la più breve per giunger al possesso del Sommo Bene”. Il Venerdì Santo del 1721 Maria Maddalena ebbe il dono dello sposalizio mistico, alle consorelle che avevano sentore delle sue esperienze diceva “pensate un po’ se il Signore vuol fare a me miserabile tali favori”.
A trentasei anni fu nominata maestra delle novizie, incarico importante e delicato; lo sarà tre volte. La sua condotta suscitò gelosie e alcune suore le divennero “contrarie”: Dio la metteva alla prova. Col
successivo incarico di “ruotare” ebbe rapporti con l’esterno e la sua fama si diffuse nella città.
Nel 1732 fu eletta badessa. Temendo che non fosse rispettato abbastanza il voto di povertà, mandò alcuni paramenti della chiesa alle Cappuccine di Venezia. Non mancarono le tentazioni: “vivo come una creatura esiliata e dal cielo e dalla terra, tanto arida e desolata, senza sentimento di Dio”.
Il 18 luglio 1734 ebbe la prima emottisi, lo rivelò a poche. Il suo corpo, già provato da tante penitenze, deperì velocemente. Il 12 luglio 1736 fu nuovamente eletta badessa. Una delle “contrarie” dirà che nel suo governo c’era qualcosa di divino. All’affanno dei medici rispondeva “io spero di aver presto a morire per tante cose ch’essi non sanno. Sono tutta in Dio, non penso ad altro”.
Gli ultimi mesi furono penosi, soffrendo meditava la Passione di Cristo: “i misteri della sua santissima vita e passione e morte li ho tutti scolpiti nel cuore, non per averli meditati, ma per averli veduti”. Tutti i particolari delle ultime giornate furono annotati dalle consorelle. Qualche anno prima aveva scritto: “che contenti per un’anima nel mirare il crocifisso che l’è posto nell’ultima agonia in mano!”. Spirò, da poco passata l’una di notte, il 27 luglio 1737.
Qualche ora dopo tutta Brescia le rese omaggio.
La Beata Maria Maddalena Martinengo è una grande mistica francescana, con influssi di spiritualità carmelitana. Possediamo numerosi suoi scritti, sia diretti alle consorelle che autobiografici, redatti per obbedienza ai confessori e che tanto le costarono.
Erano cose “intese dall’anima per esperienza e non per scienza”. “Tante cose le intendo, ma non so spiegarle; altre le spiego, ma dico spropositi”. A noi oggi dice: “O creature tutte, perché non correte ad amare sì smisurata bontà di Dio?”.
Leone XIII la proclamò beata il 18 aprile 1900.

(Autore: Daniele Bolognini – Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria - Beata Maria Maddalena Martinengo, pregate per noi.

*Beato Modesto Vegas Vegas - Sacerdote e Martire (27 Luglio)
Schede dei gruppi a cui appartiene:
“Beati 6 Frati Minori Conventuali di Granollers” Martiri Spagnoli “Beati 233 Martri Spagnoli di Valencia” Beatificati nel 2001
“Martiri della Guerra di Spagna”

La Serna, Spagna, 24 febbraio 1912 - Llisa d’Amunt, Spagna, 27 luglio 1936
Martirologio Romano:
Nel villaggio di Llisà presso Barcellona sempre in Spagna, Beato Modesto Vegas Vegas, sacerdote dell’Ordine dei Frati Minori Conventuali e martire, che nella stessa persecuzione contro la fede versò il suo sangue per Cristo. Modesto Vegas Vegas nacque il 24 febbraio 1912 a La Serna, in diocesi di Leon.
Entrò nel noviziato di Granollers, quale aspirante dell’Ordine dei Frati Minori Conventuali, ed emise i voti temporanei nel 1929. Compì gli studi filosofici e teologici ad Osimo, in Italia, ove nel 1934 emise i voti solenni e fu ordinato sacerdote.
Tornato poi in patria a Granollers, esercitò il ministero della predicazione e della confessione,
distinguendosi soprattutto nel compimento della volontà divina, nella castità, nella pazienza e nell’umiltà, conducendo sempre una vita devota e di apostolato.
Allo scoppio della guerra civile spagnola, Padre Modesto si rifugiò in casa di suoi amici, non temendo comunque di essere ucciso, desiderando anzi il martirio per amore di Cristo.
Il 27 luglio 1936, scovato e catturato, confermò apertamente di essere francescano e sacerdote, subendo così ingiurie e percosse. Venne allora condotto nei pressi di Llisa d’Amunt, vicino a Barcellona, dove venne fucilato in odio alla fede.
Modesto Vegas Vegas e suoi cinque confratelli appartenenti all’Ordine dei Frati Minori Conventuali furono beatificati l’11 marzo 2001 da Papa Giovanni Paolo II con un gruppo composto complessivamente di ben 233 martiri della medesima persecuzione.

(Autore: Fabio Arduino – Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria - Beato Modesto Vegas Vegas, pregate per noi.

*Santa Natalia e Compagni - Martiri a Cordova (27 Luglio)

Etimologia: Natalia = nascita, dal latino
Martirologio Romano: A Córdova nell’Andalusia in Spagna, Santi martiri Giorgio, diacono e monaco siro, Aurelio e Sabigoto (Natalia), coniugi, e Felice e Liliosa, ugualmente coniugi, che durante la persecuzione dei Mori, mossi dal desiderio di testimoniare la fede in Cristo, gettati in carcere non cessarono mai di lodare Cristo e morirono, infine, decapitati.
Visse durante l’occupazione musulmana a Cordova, centro del califfato ommiade (756-1091) e il suo nome era Sabigoto, conosciuta poi con il nome di Natalia.
Cristiana di fede, sposò Aurelio giovane dalla solida formazione cristiana (era nato da madre cristiana e da padre maomettano, divenuto orfano fu educato da una zia cristiana).
Essi vivevano da perfetti cristiani ma senza farsi riconoscere dai musulmani, ebbero l’occasione di assistere alle offese e insulti che il cristiano Giovanni subiva da parte dei maomettani, edificati dalla serenità di lui, sentirono il desiderio di subire anch’essi il martirio per Cristo
Questo desiderio venne rafforzato dalle visite che facevano in carcere ai futuri martiri, Giovanni, Eulogio, Flora e Maria, ma c’era un impedimento all’ardore di fede dei due coniugi, le due piccole figlie di cinque e otto anni, che rimaste sole sarebbero diventate musulmane, come tutti i loro parenti, secondo le disposizioni vigenti degli arabi.
Allora decisi, le portarono al monastero ‘Tabanense’ sotto la cura di Isabella, vedova del martire
Geremia, lasciandole denaro a sufficienza per il loro mantenimento.
C’era anche un’altra coppia cristiana, che aveva gli stessi ideali, Felice e Liliosa, tutti e due figli di genitori, mori di razza, ma cristiani di religione, a loro si aggiunse un diacono Giorgio, monaco di S. Saba di Gerusalemme, giunto in Spagna per chiedere elemosine per il suo monastero e arrivato da Sabigoto (Natalia), si sentì dire da lei che aspettava proprio lui, perché in una visione le era stato promesso un monaco come compagno di martirio.
Anche Giorgio sentì il desiderio di dare la propria vita per Cristo; i cinque si accordarono affinché le due donne andassero nella moschea a viso scoperto, facendosi così riconoscere come cristiane; furono tutti arrestati e mentre le due coppie spagnole Natalia ed Aurelio, Liliosa e Felice furono condannati a morte, Giorgio essendo straniero venne rilasciato, ma non era quello che desiderava, allora si mise ad offendere Maometto e quindi venne decapitato insieme agli altri quattro, il 27 luglio dell’852 a Cordova.
I cristiani ricuperati i loro corpi, li seppellirono in vari monasteri e chiese, separati e distanti. Natalia (Sabigoto) fu sepolta nella chiesa dei SS. Fausto, Gennaro e Marziale, poi chiamata di S. Pietro.
Lo storico agiografo Usuardo nell’858, nel suo viaggio in Spagna, prese con sé i corpi dei santi Aurelio e Giorgio e li portò nel monastero parigino di Saint-Germain-des-Prés.
Sono celebrati tutti e cinque nel giorno del loro martirio, il 27 luglio.

(Autore: Antonio Borrelli – Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria - Santa Natalia e Compagni, pregate per noi.

*Beato Nevolone - Eremita (27 Luglio)

Faenza, ? – Faenza, 27 luglio 1280
L'eremita faentino Nevolone, secondo quanto narra una cronaca composta da Pietro Cantinelli, si recò pellegrino ben undici volte a Santiago di Compostella.
Sulla sua vita, che si concluse a Faenza il 27 luglio 1280, si sa molto poco. Si sa che era un laico che esercitava il mestiere di calzolaio, dato che dal 1331 è rivendicato come patrono dai ciabattini della città romagnola.
Fu certamente anche "fratello della penitenza" del Terz'Ordine francescano e condusse una vita austera, dedita alla preghiera. La sua fama di santità fu da subito tale che i cittadini e il clero
faentino ne portarono in processione il corpo nella cattedrale, dove è tuttora conservato.
Il culto è stato confermato da Papa Pio VII nel 1817. (Avvenire)

Martirologio Romano: A Faenza in Romagna, Beato Nevolone, insigne per le sacre peregrinazioni, l’austerità di vita e la disciplina eremitica. Poche cose si sanno della vita di questo laico che morì a Faenza il 27 luglio 1280. era calzolaio, perché dal 1331 è rivendicato come patrono dei ciabattini della città di faenza.
Fu certamente “fratello della Penitenza” del Terz'Ordine Francescano e condusse un'esistenza austera dedicandosi alla preghiera. Secondo la Cronaca di Pietro Cantinelli, egli si reco 11 volte pellegrino a Santiago de Compostella.
La sua fama di santità fu tale che, fin da subito, gli abitanti e il clero faentino portarono il suo corpo processionalmente nella Cattedrale di San Pietro, dove è ancora conservato. Ben presto si verificarono numerosi miracoli sulla sua tomba, visitata da molti, al punto da istituire la figura di un guardiano.
Il culto è stato confermato da Papa Pio VII il 4 giugno 1817. La sua memoria si celebra il 27 luglio.  

(Autore: Don Tiziano Zoli – Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria - Beato Nevolone, pregate per noi.

*Sant'Orso - Abate (27 Luglio)
Martirologio Romano: A Loches sul fiume Indre nel territorio di Tours in Francia, Sant’Orso, abate, padre di molti cenobi, celebre per lo straordinario spirito di astinenza e altre virtù.
(Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria - Sant'Orso, pregate per noi.

*San Pantaleone - Medico e Martire (27 Luglio)

m. 305 c.
Pantaleone nacque nella seconda metà del III secolo a Nicomedia, nell’odierna Turchia. Diventerà successivamente medico e sarà perseguitato dall'imperatore di Costantinopoli Galerio per la sua adesione alla fede cristiana.
Fu condannato a morte nel 305: gli furono inchiodate le braccia sulla testa, che poi il boia gli mozzò. È il patrono di medici. (Avvenire)

Patronato: Ostetriche, Crema (CR), Miglianico (CH), Ravello (SA), Pianella (PE)
Etimologia: Pantaleone = interamente leone, forte in tutto, dal greco
Emblema: Palma
Martirologio Romano: A Nicomedia in Bitinia, nell’odierna Turchia, San Pantaleone, martire, venerato in Oriente per avere esercitato la sua professione di medico senza chiedere in cambio alcun compenso.
Pantaleone (Pantoléon, Pantaleémon in greco; Pantaleo in latino) godette fin dall'antichità di un vasto culto in Oriente e in Occidente, al pari dei celebri Cosma e Damiano o Ciro e Giovanni, coi quali divise nella rappresentazione agiografica il modello martiriale e taumaturgico di santi medici "anargiri" e molti tratti leggendari stereotipi, e al pari di altri santi intercessori (gruppo dei quattordici Ausiliatori in Occidente).
La sua popolarità è testimoniata dalla Passio giuntaci in varie redazioni e vaneggiamenti in greco, armeno, georgiano, copto, arabo.
Secondo la leggenda Pantaleone, nativo di Nicomedia in Bitinia, educato cristianamente dalla madre Eubule (ricordata nel Sinassario Costantinopolitano al 30 marzo), ma non ancora battezzato, è affidato dal padre pagano al grande medico Eufrosino e apprende la medicina tanto perfettamente da meritarsi l'ammirazione e l'affetto dell'imperatore Massimiano.
Si avvicina alla fede cristiana da esempio e dalla dottrina di Ermolao, presbitero cristiano che vive nascosto per timore della persecuzione, il quale lo convince progressivamente ad abbandonare l'arte di Asclepio, garantendogli la capacità di guarire ogni male nel solo nome di Cristo: di ciò fa esperienza lo stesso Pantaleone, il quale, dopo aver visto risuscitare alla sola invocazione dei Cristo un bambino morto per il morso di una vipera, si fa battezzare.
La guarigione di un cieco, che si era rivolto a lui dopo aver consumato tutte le sostanze appresso ad altri medici, provoca la guarigione spirituale e la conversione sia del cieco che del padre del Santo.
Alla sua morte Pantaleone, distribuito il patrimonio ai servi e ai poveri, diventa il medico di tutti, suscitando per l'esercizio gratuito della professione l'invidia e il risentimento dei colleghi e la conseguente denunzia all'imperatore.
Il cieco, chiamato a testimoniare, nell'evidenziare la gratuità e la rapidità della guarigione, nonché l'incapacità e la venalità degli altri medici, fa l'apologia di Cristo contro Asclepio, guadagnandosi perciò il martirio.
Il racconto a questo punto segue la struttura propria di una passio: l'imperatore con lusinghe e dolci rimproveri tenta di dissuadere il giovane dal preferire Cristo ad Asclepio.
Pantaleone propone un'ordalia tra i sacerdoti pagani e lui: intorno a un paralitico, appositamente convocato, inutilmente si affannano i sacerdoti, invocando tra gli dei anche Asclepio, Galeno e Ippocrate; il Santo invece dopo una tirata antiidolatrica guarisce nel nome di Cristo l'ammalato.
Il miracolo suscita la conversione di molti e l'ostinazione dei sacerdoti e dell'imperatore, che alle lusinghe fa seguire una lunga serie di tormenti: raschiamento con unghie di ferro e bruciature ai fianchi con fiaccole, annegamento, esposizione alle fiere, ruota.
Ogni tentativo risulta inefficace e provoca vieppiù l'ira del tiranno, che accusa il Santo di “magia”.
La Passio prende quindi l'andamento di un romanzo ciclico con l'inserimento di altri Santi personaggi, perché su subdolo invito dell'imperatore Pantaleone ingenuamente non solo fa il nome dei vecchio Ermolao e di altri due cristiani, ma li va a prendere lui stesso per condurli al cospetto del sovrano, che li fa morire.
La sentenza di morte del giovane non esaurisce la fantasmagoria del meraviglioso: la punta ripiega come cera; i carnefici chiedono perdono al santo e una voce dall'alto cambia il nome dei giovane: “non ti chiamerai più Pantoleon, ma il tuo nome sarà Pantaleémon, perché avrai compassione di molti: tu infatti sarai porto per quelli sballottati dalla tempesta, rifugio degli afflitti, protettore degli oppressi, medico dei malati e persecutore dei demoni”.
Sul modello di altre passioni antiche è il santo a esortare i carnefici a colpirlo e due ultimi prodigi chiudono il racconto: dalla ferita esce sangue misto a latte, mentre l'albero al quale Pantaleone viene legato si carica di frutti.
La critica agiografica ha da tempo riconosciuto il carattere totalmente fabuloso della Passio, un racconto infarcito dell’elemento meraviglioso e miracolistico, di motivi ricorrenti nella letteratura del genere: un testo tipico delle passioni tarde o artificiali, tendente non a definire il profilo storico, ma a delineare il “tipo” sovrumano dei martire intrepido, del Santo taumaturgo che opera gratuitamente la salvezza fisica e spirituale dei devoti.
Molto evidenti sono in particolare i punti in comune con le Vite e Passioni di santi medici anargiri (specialmente Cosma e Damiano): l'opposizione tra medicina pagana venale ed evergetismo cristiano, il motivo dell'invidia dei colleghi...
Ma assai più evidenti sono gli intenti di una simile letteratura, mirante a edificare e più ancora a infondere attraverso le figure dei Santi medici conforto e fiducia nei fedeli.
Malgrado lo scarsissimo credito della narrazione, sono ben attestate le coordinate agiografiche.
Il dies natalis di Pantaleone è prevalentemente fissato al 27 luglio, talora con oscillazione di qualche giorno.
Il Martirologio Geronimiano al 28 luglio ha in Nicomedia Pantaleonis.
Il Sinassario della Chiesa costantinopolitana ricorda Pantaleone al 27 luglio.
Negli altri martirologi siriaci prevale la data bizantina del 27 luglio, ma il Martirologio di Rabban Sliba (Xlll sec.), oltre il 27 Tamouz (luglio), lo ricorda anche nei giorni 1 e 15 Tisrin I (ottobre).
I martirologi storici medioevali dell'Anonimo Lionese, di Adone, di Usuardo, dipendenti dal Geronimiano, danno al 28 luglio una breve sintesi derivante dalla Passio latina, ricordando al 27 Sant' Ermolao e compagni.
Il Calendario latino dei Sinai, probabilmente proveniente dall'Africa, dei sec. VIII o IX, ricorda Pantaleone il 25 febbraio, data forse di qualche fondazione o traslazione, che può essere accostata a quelle del 15 o del 19 febbraio rispettivamente del Calendario Marmoreo Napoletano (IX sec.) e del calendario mozarabico. La diocesi di Crema, in provincia di Cremona, lo celebra il 10 giugno, giorno in cui per sua intercessione la città fu liberata dalla peste.

(Autore: Antonello Antonelli – Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria - San Pantaleone, pregate per noi.

*San Raimondo Zanfogni, detto Palmerio - Laico  (27 Luglio)
Piacenza 1140 - 27 luglio 1200
Etimologia:
Raimondo = intelligenza protettrice, dal tedesco
Martirologio Romano: A Piacenza, Beato Raimondo Palmerio, padre di famiglia, che, perduti la moglie e il figlio, fondò un ospizio per accogliere i poveri.
Sua madre muore tornando con lui dalla Terrasanta; Raimondo, quindicenne, arriva da solo a Piacenza e riprende il suo lavoro di ciabattino.
Più tardi si sposa: nascono via via cinque figli, e tutti muoiono in breve tempo. Ne viene un altro, Gerardo, sano e vitale. Ma perde la madre da piccolo; allora i parenti aiutano Raimondo prendendosi cura del piccolo. Rieccolo di nuovo in pellegrinaggio: a San Giacomo di Compostella, alla tomba di Sant’Agostino in Pavia. E poi a Roma, diretto in Terrasanta.
Ma accade qualcosa che lo fa tornare a Piacenza: un “avviso” dall’alto, un ordine di pensare piuttosto ai poveri della sua città.
È tempo di crescita e di prestigio per Piacenza, che nel 1095 ha ospitato un Concilio con Papa Urbano II. Nel 1154 e 1158 le sue campagne hanno visto due Diete imperiali con Federico I Barbarossa. C’è sviluppo, c’è ricchezza. Ma ci sono anche i poveri.
E Raimondo ha capito che pensare a loro è più importante del pellegrinaggio. Si butta, vi si gioca la vita. Dal pronto soccorso passa alle opere stabili, alle case per nullatenenti, agli ospizi per malati.
Chiede, prega, insiste, disturba, in cerca dei mezzi per mantenerli. Affronta risoluto chi può e non fa, chi possiede e non dà, pur bazzicando ogni giorno chiese e processioni: "Aiutateci, cristiani duri e
crudeli!". È in tribunale a difendere i poveri diavoli dai creditori; ottiene scarcerazioni sulla sua parola, si occupa dei bambini in abbandono, cerca un rifugio o un marito a donne in difficoltà.
A tutti insegna la dottrina cristiana nelle case, nei laboratori, in strada. Non in chiesa, però: è un semplice laico, e pure analfabeta. In chiesa prega e basta.
Poi torna a disturbare i governanti, che infine lo capiscono e lo aiutano. E poi strapazza il vescovo, perché non va giù abbastanza deciso contro le lotte di fazione in città.
Cerca di impedire un conflitto tra Piacenza e Cremona, e finisce in un carcere dei cremonesi: i quali poi lo liberano con scuse, sentendosi dire da tutti: "Avete imprigionato un Santo!".
E da santo lo trattano, quando muore tra i poveri. Viene sepolto in una cappella presso la chiesa dei Dodici Apostoli e si affida la custodia della tomba (offerta dal Comune) a suo figlio Gerardo. Presto si spargono (e si registrano accuratamente) le voci di miracoli, e già nel 1212 il suo ospizio viene chiamato “di San Raimondo”, senza tante storie.
Le richieste di canonizzazione si succedono di secolo in secolo, di Papa in Papa, ottenendo varie risposte che equivalgono già a un riconoscimento del culto; e nel 1602, sotto Clemente VIII, si approva l’Ufficio liturgico per la sua festa.
Nel Cinquecento, intanto, i resti di Raimondo sono stati trasferiti nella chiesa delle Suore Cistercensi di Nazareth, dove si trovano tuttora, con il capo separato dal corpo e custodito in un reliquiario.

(Autore: Domenico Agasso – Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria - San Raimondo Zanfogni, pregate per noi.

*Beato Roberto Sutton - Martire (27 Luglio)

Martirologio Romano: A Stafford in Inghilterra, Beato Roberto Sutton, sacerdote e martire, impiccato per il suo sacerdozio sotto la regina Elisabetta I.
(Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria - Beato Roberto Sutton, pregate per noi.

*San Seth - Patriarca (27 Luglio)

Figlio di Adamo, nominato dopo Caino e Abele; il suo nome (šeth) è interpretato per assonanza «Dio mi diede (šath = pose) un altro figlio al posto di Abele, ucciso» (Gen.  4, 25).
Ne è indicata la pietà «si incominciò allora ad invocare il nome del Signore» (4, 26) che si riflette sui suoi discendenti i Setiti, in contrasto con i Cainiti (4, 17-24).
Nella Chiesa siriaca, Seth è celebrato, con gli altri patriarchi, il martedì dopo Pasqua, oppure il 27 luglio, abbinato ad Enoch ed Enos, al 1° marzo.

(Autore: Francesco Spadafora – Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria - San Seth, pregate per noi.

*Santi Sette Dormienti di Efeso (27 Luglio)

In data odierna il martirologio romano ricorda i Santi Sette Dormienti, di nome Massimiano, Malco, Marciano, Dionisio, Giovanni, Serapione e Costantino.
La loro tomba è da tempo immemorabile meta di pellegrinaggi nella città di Efeso.
É però da notare che questi la vicenda di questi oscuri personaggi sia alquanto leggendaria.

Martirologio Romano: Commemorazione dei Santi Sette Dormienti di Efeso, che, come si racconta, subìto il martirio, riposano in pace, in attesa del giorno della resurrezione.
“Ricordo dei Santi Sette Dormienti di Efeso, che, come si narra, consumato il martirio, riposano in pace, aspettando il giorno della resurrezione”: in modo così assai scarno il nuovo Martyrologium Romanum ricorda questi misteriosi personaggi la cui leggenda è una delle più fiabesche nel campo dell’agiografia cristiana.
Si narra che l’imperatore Decio, grande persecutore dei cristiani, verso il 250, in occasione di un suo viaggio in Oriente, chiamò davanti al tribunale sette giovani cristiani di Efeso, città un tempo famosa per il tempio di Diana, una delle sette meraviglie del mondo, e poi per la devozione alla Madonna.
Tra un interrogatorio e l’altro, i sette riuscirono a fuggire ed a nascondersi in una grotta.
Furono però scoperti e, per ordine dello stesso imperatore, murati vivi al suo interno.
Ai ragazzi allora, non restò che prepararsi a morire in grazia di Dio ed a tal fine si stesero a terra.
Caddero però inaspettatamente in un profondissimo sonno. Non appena si svegliarono, si videro attorniati da facce stupite che li osservavano.
Il muro della grotta era stato abbattuto da un pastore che voleva ricavarne un ricovero per le sue bestie. I sette, convinti di essersi addormentati il giorno prima, si informarono se fuori ci fosse ancora pericolo, ma dopo qualche battuta si giunse a capo del madornale equivoco: avevano dormito per ben due secoli per risvegliati dunque attorno al 450 sotto l’imperatore Teodosio II, cristiano, ma con poca fede nella risurrezione.
La versione cristiana della vicenda dei sette dormienti vi sono principalmente due fonti: la prima è Gregorio di Tours, mentre la seconda versione è contenuta nella Leggenda Aurea, grandiosa opera di Jacopo Da Varazze, du cui si ripota di seguito la versione dei fatti.
“I Sette Dormienti nacquero nella città di Efeso.
Quando l’imperatore Decio perseguitava i cristiani andò a Efeso e fece edificare dei templi in mezzo alla città, perché tutti si unissero a lui per sacrificare agli dei. Fece cercare tutti i cristiani e li fece mettere in catene, obbligandoli a scegliere se sacrificare agli dei o morire: tale era il terrore che l'amico rinnegava l’amico, il padre il figlio e il figlio il padre.
C’erano in quella città sette cristiani, Massimiano, Malco, Marciano, Dionisio, Giovanni, Serapione e Costantino, che, considerata la situazione, se ne rammaricavano molto. Essendo molto in vista alla corte, non volendo sacrificare agli dei, stavano nascosti in casa, sempre intenti in digiuni e preghiere. Processati in presenza di Decio, e dimostrato che erano realmente cristiani, furono lasciati in libertà, fino al ritorno dell'imperatore, perché avessero il tempo di ravvedersi.
Ne approfittarono invece per distribuire tutti i loro averi ai poveri. Decisero di ritirarsi sul monte Celion, dove avrebbero potuto rimanere nascosti. Così rimasero a lungo nascosti, mentre uno di loro serviva gli altri, e ogni volta che andava in città assumeva le vesti e l'aspetto di un mendicante.
Quando Decio tornò in città, mandò a cercare i sette per farli sacrificare. Malco, che serviva loro, ne fu atterrito, tornò dagli altri e riferì le brutali intenzioni dell'imperatore. Dato che tutti avevano paura, Malco dette loro i pani che aveva portato, perché, rifocillatisi, acquistassero più forze per la battaglia. Poi cenarono, sedendo e parlando tra lamenti e lacrime, e, come Dio volle, si addormentarono.
La mattina li cercarono, ma senza successo; Decio si doleva di aver perso dei giovani di tale valore. Furono poi accusati di essere nascosti sul monte Celion, di aver distribuito tutti i loro averi ai poveri e di non aver assolutamente cambiato proposito.
Decio allora fece venire i loro genitori, minacciandoli di morte se non avessero detto tutto quello che sapevano. Anche loro fecero le stesse accuse, e si lamentarono che le ricchezze erano state tutte date ai poveri. Decio allora pensò cosa fare di loro, e ispirato da Dio, fece chiudere l'ingresso della caverna con un muro di pietre, perché i sette, rinchiusi là dentro, morissero di fame e di stenti.
Così fecero gli incaricati, e due cristiani, Teodoro e Rufino, descrissero tutto il loro martirio, e nascosero il testo fra le pietre della prigione. Morto Decio e morti tutti i contemporanei, nel 371, nel trentesimo anno d'impero di Teodosio, si diffuse l'eresia di coloro che negavano la resurrezione dei morti e Teodosio, imperatore cristianissimo, ne fu molto rattristato, poiché vedeva essere messa in pericolo la fede con una tale empietà.
Ogni giorno si ritirava a piangere in un luogo appartato, indossando il cilicio. Iddio, vedendo questo, volle consolare quelli che piangevano e confermare la speranza nella resurrezione; apri il tesoro della sua pietà e risvegliò i martiri di cui si è parlato.
Mise allora in mente a un efesino di costruire su quel monte alcuni ovili per i suoi pastori. Quando i muratori aprirono la grotta, i santi si svegliarono e si salutarono l’un l’altro, convinti di aver dormito una sola notte, e ricordandosi delle pene del giorno precedente, chiesero a Malco, che si occupava di loro, che cosa aveva deciso Decio in merito della loro sorte.
Ma egli rispose la stessa cosa che aveva risposto la sera prima: - Ci è stato richiesto di sacrificare agli idoli: ecco cosa vuole da noi l' imperatore.
Massimiano rispose: - Ma Dio sa che non sacrificheremo.
Dopo aver confortato i compagni ordinò a Malco di scendere in città a comprare il pane, un po' più che il giorno precedente e tornare a riferire cosa aveva disposto l' imperatore. Marco prese cinque soldi, uscì dalla spelonca, vide le pietre ammassate, se ne stupì, ma pensando ad altro, non vi dette molto peso.
Arrivò, circospetto, alla porta della città, e si meravigliò molto di vedervi esposto il segno della croce; andò allora a un'altra porta e di nuovo vide il segno della croce, e si stupì ancora di più. Andò a vedere tutte le porte, e sempre c'era il segno della croce: la città era cambiata.
Si fece il segno di croce e tornò alla prima porta, convinto di star sognando: Si copri la faccia e avvicinatosi ai venditori di pane, sentì che tutti parlavano di Cristo, e, al colmo dello stupore esclamò: - Com'è che ieri nessuno osava neppur nominare Cristo, e oggi tutti proclamano il suo nome? Forse questa non è la città di Efeso, perché è diversa: ma non conosco altre città fatte così.
Ma quando gli fu risposto che si trattava veramente di Efeso, credette di essersi sbagliato, e pensò di tornare ai compagni. Decise comunque di andare dai venditori di pane, ma quando tirò fuori le monete d'argento, i venditori stupiti credettero che il ragazzo avesse trovato un antico tesoro. Malco, vedendo che confabulavano tra di loro, pensò che volessero portarlo dall'imperatore, e allora per la paura li implorò di lasciarlo andare e di tenersi il pane e le monete d'argento.
Allora quelli lo fermarono e gli dissero: - Ma tu da dove vieni? Se hai trovato dei tesori degli antichi imperatori, diccelo, e saremo compari: ti terremo nascosto, altrimenti tutti lo sapranno.
Malco per la paura non sapeva più cosa dire; gli altri, visto che stava zitto, gli misero una fune al collo e lo trascinarono per tutte le strade fino in centro alla città; intanto si diffuse la voce che un giovane aveva scoperto dei tesori.
Tutti si accalcavano attorno a lui, e lui voleva convincerli di non aver trovato nulla; guardava attorno ma nessuno lo riconosceva, e lui pure, guardando la folla, voleva trovare qualche suo parente - che credeva in buona fede fosse vivo e vegeto - e non trovando nessuno stava in mezzo alla gente della città come uno scemo.
Quando lo seppero il vescovo san Martino e il proconsole Antipatro, che era appena giunto in città,
dettero disposizione di portare loro, con cautela, quell'uomo e le sue monete d' argento. Mentre era condotto alla chiesa dalle guardie pensava che lo stessero portando dall'imperatore. Il vescovo e il proconsole, meravigliati delle monete d'argento, gli chiesero dove aveva trovato quel tesoro sconosciuto, ma lui rispose che quei soldi venivano dal sacchetto del suoi genitori.
Alla domanda da che città venisse, rispose: - Sono di questa città; è ben Efeso, no? - Fai venire i tuoi genitori, - disse allora il proconsole, - che possano giustificarti. Quando però disse i loro nomi, nessuno li conosceva, e pensarono che stesse architettando qualcosa per poi poter scappare. Il procuratore gli disse: - Come vuoi che facciamo a credere che questi soldi siano dei tuoi genitori, se la scritta che c' è sopra dice che hanno più di trecentosettantasette anni?
Risalgono ai primi anni di Decio imperatore e sono del tutto diversi dalle monete d’argento dei nostri giorni. Vorrai mica che i tuoi genitori siano così vecchi? Tu, ragazzo vuoi forse prenderti gioco dei sapienti di Efeso? Ti affiderò alla Giustizia, fino a che non confesserai cosa hai trovato.
Malco allora si gettò ai loro piedi e disse: - Signori, per carità di Dio, ditemi ciò che vi chiedo, e io vi aprirò il mio cuore. L' imperatore Decio, che è stato in questa città, dove è ora? - Non c'è ai giorni nostri, - rispose il vescovo, - un imperatore di nome Decio; ce ne fu uno molto tempo fa.
- Mio signore, questo mi stupisce, e nessuno mi crede. Seguitemi, però, e vi farò vedere i miei compagni, che sono nel monte Celion, e a loro crederete. So di certo che siamo scappati dal cospetto di Decio, e io proprio ieri sera l 'ho visto entrare in questa città sempre che questa città sia proprio Efeso.
Il vescovo pensieroso disse al proconsole: - Dio vuol mostrarci una qualche prodigiosa visione attraverso questo ragazzo. Dunque lo seguirono, e con loro venne una gran folla di gente dalla città. Entrò per primo Malco dai suoi compagni, poi il vescovo, che vide fra le pietre la lettera con due sigilli d'argento. Chiamata la folla attorno la lesse, e tutti quelli che l 'ascoltavano erano pieni di meraviglia. Vedendo i santi di Dio seduti nella grotta freschi come rose, si gettarono a terra a glorificare il Signore.
Il vescovo e il proconsole mandarono a dire a Teodosio di venire presto a vedere il grande prodigio compiuto da Dio in quei giorni. Subito alzandosi dal sacco su cui giaceva a terra piangendo, venne da Costantinopoli a Efeso rendendo grazie a Dio; tutti quelli che gli si facevano intorno andarono con lui alla grotta.
Appena i santi videro l'imperatore, i loro volti risplendettero, e l'imperatore si gettò ai loro piedi rendendo gloria a Dio; rialzatosi li abbracciò, e pianse su ciascuno di loro dicendo : - Vi guardo ed è come se vedessi il Signore che resuscita Lazzaro.
Allora San Massimiano disse: - Credici, è per causa tua che il Signore ci ha resuscitati proprio alla vigilia della festa della Resurrezione, e credi che la resurrezione dei morti è una verità. In verità noi siamo risorti e viviamo, e come un bambino sta nell'utero della madre senza sentire urti, cosi anche noi fummo vivi, giacendo addormentati, senza sentire alcuno stimolo.
Pronunciate queste parole sotto gli occhi di tutti reclinarono nuovamente il capo a terra, addormentandosi e rendendo lo spirito, come Dio volle. L 'imperatore si rialzò e cadde su di essi piangendo e baciandoli. Avendo l’imperatore deciso di farli riporre in sepolcri d'oro, la notte stessa apparvero all'imperatore dicendo che, come sino a poc'anzi erano giaciuti in terra e dalla terra erano risorti, così li lasciasse, sino a che il Signore non concedesse una seconda resurrezione. L’imperatore allora dispose che quella località fosse adornata di pietre dorate, e che tutti i vescovi che professavano la fede nella resurrezione fossero prosciolti”.
La vicenda di questi intrepidi testimoni della fede è divenuta tanto popolare da trovare spazio anche nell’islamico Mito della Caverna contenuto nel Corano alla Sura XVIII. Ma questo non è che uno dei vari casi di santi cristiani che godono di una certa forma di venerazione anche da parte mussulmana, come anche San Giorgio e Santa Caterina d’Alessandria. A Chenini, paese facilmente raggiungibile da Tataouine, sorge ancora oggi uno splendido edificio a loro dedicato.
Edificato verso il 1100 dai Berberi, il paese pare un formicaio su montagne cosparse di grotte e caverne. Oggi disabitato, si può però ancora visitare la Moschea dei Sette Dormienti, costruita intorno al 1250 vicino ad un cimitero con alcune gigantesche tombe, in cui secondo la leggenda riposano le spoglie mortali dei Sette Dormienti.
L’Islam li interpreta quali personaggi mitici che, convertitisi al cristianesimo, morirono solo apparentemente per poi risvegliarsi dopo la predicazione di Maometto e convertirsi alla vera fede, cioè a loro giudizio l’Islam. Appagarono così la loro sete di verità e poterono morire in pace.
Indipendentemente da quale tradizione sul loro conto si preferiva prendere in considerazione, resta dunque fermo come comune denominatore il loro porsi alla ricerca della Verità e la pazienza di vegliare per aspettare il momento di darle testimonianza.

(Autore: Fabio Arduino – Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria - Santi Sette Dormienti di Efeso, pregate per noi.

*San Simeone di Egee - Diacono e Stilita (27 Luglio)

VI secolo
Etimologia:
Simeone = Dio ha esaudito, dall'ebraico
Nel cap. 57 del suo Prato Spirituale, Giovanni Mosco (m. 619) racconta: «A quattro miglia dalla città di Egee (Aigaiai) stava uno stilita chiamato Simeone.
Colpito da un fulmine questi mori.
Ora l'abbàs Giuliano, lo stilita del golfo, disse ai suoi discepoli fuori del tempo in cui era solito [rivolger loro la parola]: "Buttate l'incenso [nel turibolo]".
I discepoli gli dissero: "Padre, dicci la ragione".
Giuliano rispose: "Perché il fratello Simeone, quello di Egee, è stato colpito dal fulmine ed è morto; ed ecco passa [a miglior vita] l'anima sua con allegrezza". Ora [i due stiliti] erano distanti l'un l'altro di ventiquattro miglia». L'epoca in cui visse Simeone dovrebbe essere il sec. VI. Diverse località greche portano il nome di Aìgai o Aìgaìai.
Qui si tratta della città marittima di Cilicia, oggi Ayash, come risulta dal cap. 27 del medesimo Prato
Spirituale. L'edificante racconto mira innanzi tutto a sottolineare il dono di «televisione» proprio a Giuliano. Il transitus di Simeone non è narrato per se stesso e la santità dello stilita è del tutto marginale nella galleria di Giovanni Mosco.
Tuttavia il bollandista Du Sollier ha creduto poter individuare il Simeone «fulminato» nel Simeone archimandrita del 26/27 luglio (calendari orientali) e nel Simeone monaco e confessore «in Sicili» commemorato il 27 luglio nei martirologi latini medievali (leggendo Cilicia invece di Sicilia).
Ora sappiamo che quel Simeone è l'Anziano Stilita, e che è quindi del tutto ingiustificata l'opinione del Du Sollier secondo la quale sarebbe «ridicola e inaccettabile» l'aggiunta «in Mandra» del Sinassario di Chifflet.
Altri invece non sanno quale giorno assegnare a Simeone «stilita in Cilicia».
È però possibile, seguendo un'altra via, recuperare l'eventualità di una commemorazione di Simeone il 27 luglio In quel giorno, il Lezionario georgiano della Chiesa di Gerusalemme, detto di Parigi (secc. V-VIII) annunzia: «Commemorazione di Simeone e di Simeone stiliti». Il secondo stilita non sembra da identificare con Simeone il Giovane, commemorato nel citato Lezionario il 28 maggio, ma con un terzo Simeone stilita, precisamente quello iscritto dopo i due più famosi, senza titolo particolare, nel calendario georgiano di Giovanni Zosimo, il 27 luglio.
Negli ambienti monastici siro-palestinesi il Simeone stilita di Giovanni Mosco avrebbe cosi trovato un'eco che si è ripercossa anche nella liturgia bizantina, per mezzo di Teodoro Studita al quale è stato attribuito il Canone dei Ss. Padri inserito nell'Ufficio mattutino del sabato tès tyrinès (seconda settimana prima della Quaresima); di tale canone la sesta ode esalta, nel terzo tropario, «l'omonimia simeoniana doppiamente doppia: gli stiliti sono tre, e uno il Salò».
Esclusa dall'antichità del canone la possibilità di un riferimento a Simeone stilita iconodulo, non rimane che l'asceta di Egee, la cui morte fulminea è stata interpretata, per merito del carismatico Giuliano, in un modo agiograficamente positivo.

(Autore: Daniele Stiernon – Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria - San Simeone di Egee, pregate per noi.

*San Simeone Stilita - il Vecchio (27 Luglio)

Sis, Cilicia, 380 – Qal'at Sim'an, Siria, 2 settembre 459
Etimologia
: Simeone = Dio ha esaudito, dall'ebraico
Martirologio Romano: Vicino ad Antiochia in Siria, San Simeone, monaco, che visse per lunghi anni su una colonna, assumendo per questo anche il nome di Stilita, uomo di vita e di condotta degne di ammirazione.
Notizie abbastanza dettagliate su questo santo stilita ci sono pervenute dalla testimonianza oculare di Teodoreto, vescovo di Ciro e storico imparziale, che fu suo intimo amico.
La sua strana forma di ascetismo, assai discussa sin dai suoi tempi, oggi non sarebbe assolutamente più compresa.
Non si può tuttavia negare che tale specialissima vocazione si sia rivelata utile all’edificazione del popolo e per la difesa della fede.
Simeone nacque a Sis, in Cilicia, verso l’anno 380, da una famiglia di poveri pastori. Nell’infanzia sua unica occupazione fu la custodia del gregge. Un giorno, non essendo potuto andare al pascolo a causa della neve, si recò in chiesa ove rimase emozionato udendo la lettura delle beatitudini evangeliche.
Chiese allora ad un vegliardo come fosse possibile conseguire la felicità che esse promettevano e questi gli suggerì di abbandonare senza esitazioni il mondo.
Simeone entrò allora in un’altra chiesa e, prostrato per terra, pregò a lungo il Signore perché gli mostrasse la sua volontà. Addormentatosi, in sogno gli sembrò di scavare le fondamenta di una casa: tra una sosta e l’altra, una voce più volte lo ammonì: “Scava più a fondo”. Quando le fondamenta raggiunsero una certa profondità, la medesima voce gli disse: “Adesso puoi costruire l’edificio all’altezza che vorrai”.
Desiderando vincere se stesso e raggiungere la perfezione, Simeone decise di rinchiudersi in un monastero, dove condusse una vita innocente ed improntata ad una dura austerità, dedito agli uffici più umili. Siccome però aspirava ad una perfezione ancora più alta, due anni dopo si trasferì nella solitudine di Teleda per una decina d’anni.
Qui i suoi compagni mangiavano ogni due giorni, egli invece passava tutta la settimana senza assumere cibo. I poveri erano i beneficiari della sua razione.
L’abate Eliodoro, non approvando quella sua singolarità, tentò invano di moderarlo. Un giorno Simeone si strinse fortemente attorno al corpo una corda tessuta di mirto selvatico, tanto da provocare vistose piaghe e dopo alcuni giorni fu scoperto per il sangue che perdeva ed il fetore che emanava.
Furono necessarie varie cure e, appena guarì, l’abate lo congedò dal monastero, affinché quello straordinario fervore non inducesse altri ad imitarlo.
Simeone si rifugiò in un pozzo asciutto ed in esso pregò e pianse di continuo, credendosi un grande peccatore, finché l’abate cinque giorni dopo lo mandò a richiamare, pentito del cattivo trattamento che gli aveva riservato. Un anno dopo, però, uscì definitivamente dal monastero per stabilire la sua dimora in una capanna a Teli Nesim, nei pressi di Antiochia, sotto la direzione del sacerdote Basso.
Essendovi giunto al principio della quaresima, si propose di trascorrerla nel più assoluto digiuno, ma il suo maestro si oppose, considerando un simile progetto una tentato suicidio . Infine si fece murare nel tugurio con soli dieci pani ed una brocca d’acqua.
Al termine della quaresima Simeone giaceva per terra senza voce e senza movimento, ma dopo aver ricevuto la comunione riacquistò le forze. Per ben ventotto anni puntualmente egli rinnovò questo terribile digiuno quaresimale.
Dopo aver trascorso tre anni in quella misera cella, Simeone salì sulla vicina montagna e, per darsi alla contemplazione, si fece legare una catena ad un piede, infissa nella roccia del recinto che si era fatto costruire a ridosso del monte. Melezio, vescovo di Antiochia, visitando Simeone nella volontaria prigione, si permise di fargli notare che in tale maniera atroce venivano legate soltanto le bestie feroci.
Il Santo si propose allora di tendere alla perfezione con la forza della volontà e nel rompere la catena, il cuoio villoso che gli proteggeva la carne apparve anche agli occhi di Teodoreto pieno di cimici: Simeone ne aveva sopportato i morsi con un’invincibile pazienza.
La vita straordinariamente penitente praticata dal santo, nonché i miracoli da lui operati, attirarono una folla immensa di pellegrini. Trovando esagerati gli atti venerazione nei suoi confronti, ritenne allora opportuno relegarsi sopra ad una colonna e successivamente altre tre di altezza sempre superiore. La colonna era sormontata da una balaustrata di un metro circa di diametro, sprovvista di alcun riparo dalla pioggia o dal sole.
Lo stilita non poteva dunque né sdraiarsi, né sedersi. Ogni settimana riceveva la comunione ed ogni quaranta prendeva un po’ di cibo.
In tal modo rimase pur sempre esposto agli sguardi della folla, apparendo come un modello di sovrumana fortezza e di costanza. Simeone si rivolgeva con semplicità al popolo due volte al giorno,
dopo nona, per rendere giustizia ai litiganti, per ricordare la necessità del distacco dai beni terreni ed i terribili castighi riservati agli ostinati peccatori.
Il resto della giornata lo riservava alla preghiera. Convertì molti saraceni, persiani, georgiani e armeni. Sempre con dolcezza combatté inoltre gli errori dei giudei, degli eretici e dei pagani.
Simeone godette della fama di taumaturgo e di profeta. Nessuno si allontanò da lui senza essere consolato: fece scaturire una sorgente di acqua in una località che ne era priva, ottenne figli alle regine dei saraceni e degli israeliti, predisse guerre e carestie, ridonò la salute a tanti infermi. L’imperatore San Teodosio II il Giovane lo supplicò di lavorare per il bene della Chiesa e di fare in modo che Giovanni, patriarca di Antiochia, cessasse dal sostenere la causa dell’eretico Nestorio.
L'imperatore San Leone I il Grande gli scrisse invece riguardo al concilio di Calcedonia ed a Timoteo Eluro, impadronitosi del patriarcato di Alessandria uccidendo San Proterio. Da parte sua Simeone rammentò ai prelati ed ai principi i loro doveri, pur considerando se stesso “un vile e abietto verme e l’aborto dei monaci”. Alla vedova di Teodosio II, Santa Eudossia, che gli chiese un parere sull’eretico Eutiche e sul concilio di Calcedonia, egli consigliò di ricorrere a Sant’Eutimio il Grande.
Il disprezzo che Simeone aveva sempre nutrito per il proprio corpo, lo rese insensibile ai dolori cagionatigli dalle piaghe, ma ebbe comunque il presentimento della sua ultima ora. Ricevette l’ultima volta l’Eucaristia per mano di Domno, patriarca di Antiochia. Infine, il 2 settembre 459 l’eroico penitente rese la sua anima a Dio, mentre s’inchinava sulla sua colonna come era solito fare per iniziare la sua preghiera.
Alla notizia del decesso, il patriarca di Antiochia ed altri sei vescovi, nonché il capo della milizia Ardaburio con ben seicento soldati, si recarono ai piedi della colonna. Tre vescovi vi salirono e baciarono le vesti dello stilita recitando salmi. Il suo corpo venne posto in una bara di piombo.
I saraceni accorsero armati tentando d’impadronirsene, ma Ardaburio si oppose fermamente. Una enorme folla accorse attorno alla colonna con profumi, ceri e fiaccole.
Il corpo di Simeone venne allora collocato sopra un altare di marmo, eretto dinnanzi alla colonna, e tutti i vescovi lo baciarono devotamente. Il feretro, deposto sopra un carro, fu poi trasferito ad Antiochia.
L’imperatore Leone I avrebbe poi voluto fare trasportare le reliquie a Costantinopoli, ma dovette desistere dal suo progetto per le suppliche degli antiocheni.
Sul sepolcro del santo iniziarono a verificarsi più miracoli di quanti non ne avesse compiuti in vita. Un magnifico tempio a forma di croce con un quadriportico, del quale rimangono le rovine, fu invece eretto a Qal'at Sim'an attorno alla colonna sulla quale Simeone aveva compiuto tante penitenze.
Discepolo ed imitatore di Simeone fu lo stilita San Daniele, che introdusse gli stiliti a Costantinopoli. Commemorato in data 27 luglio dal Martyrologium Romanum, San Simeone Stilita è detto “il Vecchio”, onde distinguerlo dal santo omonimo vissuto nel secolo successivo, monaco in Siria, che visse per ben sessantotto anni su una colonna, tanto da meritarsi anch’egli il soprannome “stilita” ed è dunque noto come San Simeone Stilita il Giovane.
Il Santo odierno, solitamente festeggiato invece in oriente al 1° settembre, viene talvolta confuso od identificato con San Simeone di Egee.

(Autore: Fabio Arduino – Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria - San Simeone Stilita, pregate per noi.

*Sant'Ugo di Lincoln - Fanciullo Martire (27 Luglio)

Lincoln, 1246 (?) - Lincoln, 1255
Il nostro martire, noto, per distinguerlo da un altro santo omonimo della stessa città, come il “piccolo Ugo di Lincoln”, era figlio di una povera donna, della quale c’è stato tramandato il nome di Beatrice, ed abitava a Lincoln, nella regione inglese del Lincolnshire. Nacque probabilmente nel 1246.
Il 31 luglio del 1255, il giovinetto, che aveva circa otto anni, scomparve in circostanze misteriose. Il suo corpo, ormai esangue, fu ritrovato il 29 agosto successivo, ricoperto di immondizie, in un anfratto o in un pozzo, di proprietà di un ebreo di nome Jopin.
Tanto bastò per incriminare dell’uccisione del piccolo Ugo gli ebrei della sua città. L’accusa era sempre quella che, nel corso del Medioevo e sino quasi ai nostri giorni, si ripeterà in continuazione: quella, vale a dire, di aver ucciso ritualmente fanciulli innocenti.
A Jopin, in primo luogo, si addebitava di aver attirato il piccolo Ugo nella sua abitazione. Insieme, quindi, ad altri correligionari lì convenuti per l’occasione, egli avrebbe torturato il bambino, flagellandolo e coronandolo di spine, ed, infine, lo avrebbe crocefisso in irrisione della morte di Cristo.
La storia, tramandateci da antiche cronache, continua a dire che la terra, con vari prodigi, si rifiutò di coprire il misfatto, accogliendo e nascondendo nelle sue viscere il corpo di Ugo. Per tale ragione, il cadaverino inerme del giovane fu abbandonato in un pozzo o in un anfratto, come già ricordato.
Qualche tempo dopo la scomparsa, i compagni di gioco del piccolo riferirono alla madre di aver visto
Ugo seguire l’ebreo. Nell’andare alla casa di questi, ella scoprì il corpo del figlio.
Su Jopin pesava, quindi, la pesante accusa di aver commesso un omicidio rituale. Egli confessò questo crimine confidando nella promessa del giudice incaricato del caso, certo Giovanni di Lexington, che sarebbe stata risparmiata la vita a lui ed agli altri ebrei coinvolti qualora si fosse autoaccusato del misfatto, indicando nei suoi correligionari i complici.
Nella sua deposizione, Jopin aggiunse, inoltre, che era un’usanza ebraica quella di crocifiggere ragazzi cristiani una volta l’anno in odio a Cristo.
Il re Enrico III, però, passando per Lincoln circa cinque settimane dopo, agli inizi di ottobre, rifiutò di mantenere la promessa di Giovanni di Lexington.
Jopin fu, quindi, giustiziato e novantuno ebrei di Lincoln furono arrestati e tradotti a Londra. Diciotto di loro furono giustiziati.I superstiti, ritenuti colpevoli, dapprima condannati a morte, furono perdonati grazie ai buoni uffici dei francescani o, secondo taluno, grazie all’esborso di una gran somma di denaro.
I miracoli, che si disse essersi verificati sulla tomba del bambino per sua intercessione, fecero sì che il suo corpo fosse traslato dalla chiesa della parrocchia a cui Ugo apparteneva alla maestosa cattedrale gotica di Lincoln, dove fu lì sepolto con tutti gli onori e venerato come martire.
Il racconto del martirio del piccolo Sant'Ugo è stato oggetto, nel corso del Medioevo, di ballate poetiche. Se vi era una qualche base di verità storica nell’accusa contro gli ebrei della città di Lincoln e di Jopin in particolare non c’è dato poterlo accertare con sicurezza.
Quel che è indubitabile è che tali accuse (non provate), frutto di pregiudizi religiosi, assai spesso sono state strumentalmente utilizzate allo scopo di discriminare, nel corso dei secoli, gli appartenenti alla stirpe d’Israele e di estorcere ingenti somme di denaro alle loro comunità.
(Autore: Francesco Patruno - Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria - Sant'Ugo di Lincoln, pregate per noi.

*Beato Zaccaria Abadìa Buesa - Chierico Salesiano, Martire (27 Luglio)


Giaculatoria - Beato Zaccaria Abadìa Buesa, pregate per noi.

*Altri Santi del giorno (27 Luglio)

*Beato Tito Brandsma - Martire Carmelitano
Giaculatoria - Santi tutti, pregate per noi.

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